Domenica XXIX del tempo Ordinario
Nel mondo, ma non del mondo
Il Cristiano ha una doppia cittadinanza. Egli è certamente cittadino di questa terra, non può quindi esimersi dal partecipare alla vita politica e sociale della comunità in cui vive. D’altra parte, però, il Cristiano concepisce la storia come un cammino verso il Regno dei Cieli ed è dunque tenuto a lavorare per la sua realizzazione.
La moneta e il cuore
Proprio un bel tranello! Ma il nostro Maestro, come sempre, non si lascia imbrigliare nelle maglie strette dei ricatti dei suoi oppositori. Dopo le tre parabole sull’accoglienza e il rifiuto di Gesù, il racconto di Matteo ci propone una serie di dispute in cui i farisei, i sadducei e gli erodiani sottopongono al Rabbì di Nazareth alcune delle questioni più scottanti del momento. Sia chiaro: a nessuno interessa il Suo parere, vogliono solo trovare il pretesto per puntare il dito contro di Lui. Un tranello, dicevo. In qualunque modo Gesù avesse risposto alla domanda maliziosa dei farisei e degli erodiani, si sarebbe tirato la zappa sui piedi. Se avesse risposto che è lecito pagare il tributo a Cesare, avrebbe perso tutta la simpatia delle folle e soprattutto sarebbe stato accusato d’infedeltà verso il Dio di Israele che è l’unico che deve essere servito. Se avesse invece risposto che non è lecito pagare il tributo, avrebbe sollevato le autorità romane e la relativa accusa di ribellione e di istigazione delle folle contro il potere costituito. Insomma: Gesù si trova in un bel pasticcio! Ma la risposta di Gesù è completamente inattesa e disarmante. Il Rabbì evita brillantemente di scivolare nelle pieghe del tranello, supera la logica dello schieramento e porta i suoi interlocutori a fare un passo indietro. Gesù chiede una moneta. Qual è l’immagine stampata su di essa? Chi è il proprietario? Cesare! Ok, è roba sua, restituitela a Lui. E fino a qui mi sembra un ragionamento evidente. E’ sulla seconda parte della risposta che troviamo invece tutta la carica profetica di Gesù: “A Dio quello che è di Dio!” La Sua preoccupazione è tutta tesa nel fare emergere il primato di Dio. In nessuna situazione politica lo stato può erigersi a valore assoluto. Nessun uomo di potere può arrogarsi i diritti di Dio o sostituirsi alla coscienza degli uomini.
L’autorità di Cesare è sulla circonferenza della moneta, perché lì è la sua immagine; il primato di Dio è sul cuore dell’uomo perché Lui è la sua immagine.
Il tesoro di Cesare sono le sue monete; il tesoro del Dio Vivente è il nostro cuore.
I figli notano se abbiamo un Dio al di sopra dei nostri interessi
Con chi sta parlando Gesù quando dice: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare”? Al solito, non possiamo prescindere dal contesto, altrimenti rischiamo letture superficiali del tipo: Cesare (il potere politico) e Dio sono sullo stesso piano, diamo a ciascuno ciò che gli spetta! O, peggio ancora, rischiamo di far suggerire al testo la diplomazia di “un colpo al cerchio, un colpo alla botte”, per fare contenti tutti.
Lasciamo dunque parlare il testo: la domanda: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”, è una falsa domanda, costruita per così dire a tavolino, per far fuori quel Maestro itinerante così scomodo, eppure così amato dalla folla. Matteo ci mette in guardia proprio su queste trame: il suo interesse non è quello di farci sapere di qual partito è Gesù (pro o contro i Romani), ma di mostrarci quale inimicizia circonda Gesù proprio a Gerusalemme, la città meta del suo lungo viaggio, la città che rivelerà chi è veramente dalla parte di Dio o chi tiene solo al proprio potere.
Il tributo a Cesare era una tassa pro-capite che ciascun giudeo doveva all’imperatore romano attraverso una moneta che portava l’immagine di Tiberio Cesare con la scritta: Tiberio Cesare Augusto, figlio del divino Augusto, sommo sacerdote. Quando Gesù chiede: “Mostratemi la moneta”, essa salta fuori facilmente dalle tasche dei suoi accusatori (farisei ed erodiani): dunque essi erano disposti a pagarla!
La risposta di Gesù è lampante: la questione non è su ciò che è dovuto a Cesare, ma a Dio. Egli parla a conoscitori della Bibbia, i quali, ad esempio, conoscono perfettamente che il Salmo 62, al versetto12, dice: “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: il potere appartiene a Dio, tua, Signore è la grazia”. Gesù dice loro: il potere di Cesare è limitato, e se date a Dio quello che è di Dio, non potete che dare a lui ogni potere. È così che si comporta il Figlio (e tutti noi impariamo ad essere figli nel Figlio): non mette mai in secondo piano i diritti di suo Padre, anche quando ciò gli costa la vita.
Ma che cosa significa dunque tutto questo per le nostre famiglie? Significa che il nostro dovere di cittadini – compreso il dovere ineludibile di pagare le tasse! – va fatto non per la bella faccia di qualcuno, non per un partito piuttosto che per un altro, ma perché abitare la città degli uomini significa avere dei compiti di costruirla, di renderla sempre più umana, di permettere a tutti una qualità della vita che renda loro il merito di “figli di Dio”.
I nostri figli ci guardano: se ci vedono fare i furbi, imbrogliare, non pagare le tasse, ne ricevono una lezione inequivocabile: non che “abbiamo fatto fesso qualcuno”, ma che tutto si può ridurre al proprio interesse, che non c’è alcun Dio sopra il proprio interesse. Non c’è da stupirsi pertanto se poi li troviamo indifferenti, qualunquisti, arrivisti, vestiti e calzati per la società globale. Abbiamo dimenticato di dare a Dio quello che è di Dio, ragione ultima per non essere tributari di nessun potere, nemmeno del proprio.