Domenica XXXIII del tempo Ordinario
Chi ama Dio non sotterra i suoi talenti
La parabola dei talenti parla della venuta di Gesù per il giudizio universale. Quando ritornerà, egli esigerà di sapere da noi come abbiamo usato il nostro tempo, cosa abbiamo fatto della nostra vita e dei talenti che abbiamo ricevuto, cioè delle nostre capacità. Il premio per il buon uso sarà la partecipazione alla gioia del Signore, cioè al banchetto eterno. La parabola racchiude un insegnamento fondamentale: Dio non misurerà né conterà i nostri acquisti, le nostre realizzazioni. Non ci chiederà se abbiamo compiuto delle prodezze ammirate dal mondo, perché ciò non dipende da noi, ma è in parte condizionato dai talenti che abbiamo ricevuto. Vengono tenute in conto soltanto la fedeltà, l’assiduità e la carità con le quali noi avremo fatto fronte ai nostri doveri, anche se i più umili e i più ordinari. Il terzo servitore, “malvagio e infingardo” ha una falsa immagine del padrone (di Dio). Il peggio è che non lo ama. La paura nei confronti del padrone l’ha paralizzato ed ha agito in modo maldestro, senza assumersi nessun rischio. Così ha sotterrato il suo talento. Dio si aspetta da noi una risposta gioiosa, un impegno che proviene dall’amore e dalla nostra prontezza ad assumere rischi e ad affrontare difficoltà. I talenti possono significare le capacità naturali, i doni e i carismi ricevuti dallo Spirito Santo, ma anche il Vangelo, la rivelazione, e la salvezza che Cristo ha trasmesso alla Chiesa. Tutti i credenti hanno il dovere di ritrasmettere questi doni, a parole e a fatti.