I domenica di Avvento
Uno dei problemi dell’identità cristiana, della consapevolezza dell’essere cristiani, è che ci si limita ad una identificazione, ai limiti della classificazione, fra chi pratica e chi no, fra tradizionalisti o progressisti, etc.. Quante volte abbiamo sentito la frase “sono cristiano ma non praticante” oppure “sono cristiano praticante”, illudendoci che possono esserci modalità, anche intermedie (tipo “però vado a Messa a Natale e Pasqua!), cose che complicano in maniera importante proprio il problema dell’identità cristiana. Praticare o non praticare, o praticare quando serve, o non praticare ma pensarla comunque come Gesù, assieme a tante altre “identificazioni”, sono tutti indici che della fede cristiana si è capito poco, o meglio, c’è da riprendere seriamente in mano le basi, le ragioni della propria fede per capire e portare a coscienza quello che è il nucleo vitale che nutre l’identità cristiana. Identità che sia in grado di fornirci le ragioni della nostra fede per cui siamo realmente ciò che siamo senza dubbi e senza equivoci e, sopratutto, senza essere ingabbiati in classificazioni non necessarie al nucleo stesso della fede.
L’essere in “attesa” è un indice importante per l’identità cristiana. Essere in attesa per l’avvento di Gesù nella Gloria è una condizione vitale per il popolo dei battezzati, battezzati che ricordano e rinnovano la loro condizione di “attendenti” facendo memoria della prima venuta, dell’incarnazione, di Colui che sta tornando per instaurare definitivamente il Suo Regno, regno di amore e di pace di cui saranno parte tutti i “suoi”.
Già il popolo d’Israele ci indica, nell’Antico Testamento, una tensione verso la realtà dell’attesa di Colui che viene, tutta la vita di fede degli ebrei era ed è un celebrare l’attesa della venuta del Messia che libererà definitivamente il popolo d’Israele dai suoi nemici: un pio ebreo vive tutta la propria vita celebrando quest’attesa. Attesa che si nutre e sostiene facendo memoria delle “meraviglie” o segni della benevolenza che Dio ha dimostrato lungo il corso della storia.
Così, come l’ebreo che non attende la venuta del Messia perde la coscienza della propria identità, e cade nel contingente – nella misera consolazione di quello che si ha, che si vede, che si tocca – così il cristiano che non attende la venuta ultima e definitiva del Signore Gesù. Per il pio ebreo, la coscienza di appartenere al popolo eletto privata delle celebrazioni delle “meraviglie” di Dio (liberazione dalla schiavitù, etc) e dell’attesa di colui che libererà definitivamente (MašÄ«aล = Unto), ed introdurrà per tutti l’epoca Messianica di pace per i vivi e per i morti (resurrezione), si appiattisce su una elezione puramente “umana”, sempre in pericolo e sempre in bilico fra l’essere e l’essere distrutto, coscienza che, per così dire, rischia di perdersi fra le pieghe del non senso di appartenere ad un popolo eletto ma non si sa da chi e perché, così per il pio cristiano: perdere l’attesa di Colui che realizzerà definitivamente il Regno di resurrezione e di pace, nella sua venuta alla fine dei tempi, è perdere i motivi della propria fede ed appiattirsi su un “contingente” che diventa l’unico orizzonte, sempre in bilico tra l’essere per Cristo e perdersi lontano da Lui. Se l’orizzonte della fede è la Resurrezione, non attendere colui che l’ha già realizzata (in Lui) e la realizzerà in noi è gettare via ogni speranza e con essa ogni identità.
Il tempo di avvento è un dono che ci viene fatto, e si concretizza nella liturgia della Chiesa, proprio per rinnovare la Fede in Colui che realizzerà ogni gioia nella Resurrezione. Qualcuno forse obietterà che, per questo, c’è un tempo di quaresima ed una Pasqua di Resurrezione da vivere nella liturgia della Chiesa ma a questo si deve puntualizzare che, a differenza del Popolo Ebraico, i cristiani vivono un tempo del “già e non ancora”, un tempo tra l’incarnazione del Cristo e la Sua venuta definitiva, fatto che ci impone una responsabilità maggiore rispetto ad un solo “tempo della promessa” che vivono i nostri fratelli maggiori. Per questo il tempo di avvento che termina col Natale, con la memoria della incarnazione del nostro Signore, deve essere un tempo prezioso per riaccendere la fede, fede che attende con voglia ed attenzione il Suo Signore, ricordandosi che Egli tornerà sicuramente come sicuramente è già venuto nell’incarnazione. L’avvento è il tempo per vegliare sul ritorno della nostra gioia, un tempo per affermare con forza l’identità di quello che siamo, anche perché vogliamo esserlo, ed esserlo nell’ordinarietà della vita che, anche se sembra scorrere senza differenze con tutte le altre vite, sappiamo avrà un epilogo differente (… due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.). Come siamo capaci dunque di vegliare quando i nostri interessi sono minacciati (… se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.) il tempo dell’Avvento deve aiutarci a ricentrarci sulla vigile attesa di colui che è ben altro che un ladro per noi: è Colui che è la causa della nostra salvezza e sarà la causa ed l’artefice della nostra resurrezione! Egli è già venuto nella nostra stessa carne, indossando le nostre stesse vesti e vincendo la nostra stessa morte ma, ricordiamoci, tutto sarebbe inutile se Egli non tornasse ancora, come sarebbe tutto inutile se Egli tornasse e non trovasse nessuno ad aspettarlo! Ma non sarà così, egli troverà chi lo attende, troverà chi ha tenuto le lampade accese, troverà chi lo ha atteso e lo accoglierà, come già è stato atteso ed accolto da una vergine adolescente, anche se, la prima volta, si è dovuto accontentare di nascere povero in una grotta, come noi cristiani usiamo contemplare nei nostri presepi a Natale. Egli tornerà, sicuramente tornerà, come già venuto… tornerà!
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