III domenica del tempo ordinario
È dura, cambiare la nostra mentalità… Siamo persone che in genere, una volta trovato il proprio assetto, non hanno molta predisposizione a cambiare, e diveniamo abitudinari: per quasi tutta la nostra esistenza, gli stessi ritmi, lo stesso modo di vestire, lo stesso modo di parlare, le stesse compagnie, le stesse letture, gli stessi gusti alimentari, lo stesso negozio, lo stesso bar, lo stesso luogo di villeggiatura, lo stesso pensiero a livello politico, religioso, sociale, civile… e chi più ne ha, più ne metta. Non fa parte del nostro DNA cambiare con facilità. E sì che noi non siamo mai gli stessi del giorno prima! Il nostro corpo cambia in continuazione, le nostre cellule lo fanno con una velocità impressionante, la nostra memoria…lo sappiamo bene quanto cambia, con il passare degli anni. Eppure, chiederci di cambiare qualcosa su cui ci sentiamo ben saldi e assodati, è veramente una fatica, anche perché abbiamo una sacrosanta esigenza di stabilità, ma poi, molto spesso, cadiamo in quella sorta di immobilismo che impantana la nostra vita come se fosse circondata dalle sabbie mobili. Quelle, almeno, sono mobili! Ma quanto poco siamo disposti, noi, a cambiare qualcosa di ciò che siamo, di ciò facciamo, e soprattutto di ciò che pensiamo: al punto che il nostro giudizio sulle cose è talmente preconfezionato da divenire un “pregiudizio”, che è la forma meno onesta di vedere le cose, i fatti, le persone.
Gesù, questa fatica, l’ha capita da subito, sin dall’inizio della sua missione: e le parole con cui esordisce nel Vangelo di Marco, che ci accompagnerà lungo tutto quest’anno alla scoperta proprio della persona del Maestro, parlano chiaro e suonano da programma della sua missione nel mondo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. Ci sono due affermazioni e due esortazioni, in queste parole. Le due affermazioni servono a proclamare come dato di fatto due verità; le due esortazioni ne sono la naturale conseguenza, o – se preferiamo – la condizione interiore perché ciò che è stato affermato si realizzi. Le due affermazioni sono chiarissime: per chi aspettava la salvezza d’Israele, è finito il tempo dell’attesa, è il momento di iniziare a costruire il Regno di Dio, la cui realizzazione è vicina. In pratica, non c’è più tempo da perdere: bisogna mettersi al lavoro per costruire il Regno di Dio. Come? Credendo alle parole di Gesù, credendo al Vangelo, accogliendo la sua Parola di novità, di libertà e di gioia. Ma la condizione necessaria per accogliere il Vangelo e iniziare a costruire il Regno è una sola: convertirsi.
Il termine usato da Marco, in realtà, non parla di conversione come la intendeva Giona (il quale peraltro se la prenderà con Dio che si fa intenerire dalla conversione dei Niniviti). Marco non mette in bocca a Gesù il termine “conversione” nel senso di “cambiamento di comportamenti” a livello morale, o passaggio da una vita di peccato a una vita di santità e di buone opere: e meno male, perché se così fosse credo che ogni giorno saremmo da capo, visto che fine fanno i nostri buoni propositi di comportarci bene, di “non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato” che pronunciamo ogni volta che andiamo a confessarci. Gesù sa bene che la conversione non può significare smettere di fare i cattivi e iniziare a fare i bravi: è qualcosa di più realistico, ma anche di tremendamente più impegnativo. Conversione significa proprio ciò che dicevamo all’inizio: cambiare mentalità, cambiare innanzitutto modo di pensare e di vedere le cose e le persone, cambiare modo di giudicare. Solo allora, forse e di conseguenza, riusciremo anche a cambiare i nostri comportamenti. Ma prima di tutto occorre cambiare la testa. Occorre essere aperti alla novità, occorre accettare di ribaltare il nostro punto di vista, occorre accettare che le cose non sono sempre e solo come le pensiamo, le vediamo e le diciamo noi, occorre accettare le persone per quello che sono, occorre accoglierle senza pregiudizi, occorre essere disposti a seguire il Maestro facendo in modo che sia lui a condurre le danze della nostra vita.
Credere che il Vangelo fa nuove tutte le cose e che quindi ci costringe a cambiare mentalità vuole dire accettare che, d’ora in poi, un Maestro non scelga i suoi discepoli tra gli alunni più meritevoli di una scuola rabbinica, ma li prenda dalle rive di un lago mentre svolgono il loro umile, ingrato e per quel tempo disprezzato mestiere di pescatori; vuol dire accettare di iniziare il cammino non dalla Giudea o da Gerusalemme (che saranno invece il punto d’arrivo), ma dalla Galilea, dalla zona più sperduta, più caotica e con la fede più imbastardita di tutto il Regno d’Israele; vuol dire accettare di cambiare modo di vedere la propria vita come “lavorare solo per se stessi e per il proprio benessere”, togliendo pesci dal lago per mangiare o per guadagnarci, e iniziare, invece, a vivere la vita in funzione degli altri, a servizio degli altri, a servizio di chi cade nel mare della vita e va “ripescato”, altrimenti rischia di annegare.
Troppo comodo, un Dio che sceglie per sé i migliori, che li coccola al calduccio di un tempio o di una chiesa, e che insegna loro a lavorare onestamente, sì, ma solo per badare a se stessi; il Dio di Gesù Cristo sceglie gli ultimi, li porta nelle periferie del mondo, e insegna loro a pensare prima di tutto agli altri, tirando fuori gli uomini e le donne del loro tempo dal mare burrascoso della loro vita. Accettare un Dio così vuole dire cambiare completamente la mentalità, prima di tutto smettendola di pensare che le cose vanno bene come continuiamo a farle solo perché ci fa comodo farle così.
E se Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, quel giorno avessero risposto al Maestro: “Abbiamo sempre fatto così”?