III domenica di Pasqua
Con il Vangelo di oggi, ci congediamo dai cosiddetti “racconti di apparizione”, vale a dire quei brani di Vangelo che raccontano le varie esperienze di incontro con Gesù Risorto vissute dai discepoli nei giorni immediatamente successivi all’annuncio della tomba trovata inspiegabilmente e incredibilmente vuota. Sono narrazioni particolari, molto diverse tra loro: talmente diverse da farci comprendere in maniera abbastanza immediata che non esiste un elemento storico comune tale da narrarci come siano andate le cose dopo la morte in croce di Gesù. Se, infatti, sulla vita di Gesù abbiamo elementi comuni che permettono di ricreare una base storica abbastanza documentata, non possiamo dire lo stesso sui fatti avvenuti dopo la sua morte, in modo particolare l’episodio della Resurrezione, al quale nessuno ha assistito di persona per poterne fare una cronaca. Certo, molti sono anche gli elementi che giocano a favore della storicità della Resurrezione di Gesù, due in modo particolare.
Il primo, riguarda proprio la diversità delle narrazioni di apparizione da parte dei discepoli: se il gruppo dei suoi seguaci avesse voluto “inventarsi” la storia del Maestro che risorge da morte, sarebbero stati più credibili creando una storia “a tavolino”, narrando fatti precisi, tra loro concordi e soprattutto il più possibile convincenti. Come sappiamo, invece, niente di tutto questo, anzi: viene spesso narrata la fatica, l’incapacità a riconoscere Gesù vivo, e comunque prevale sempre l’aspetto personale dell’incontro con il Risorto. Il secondo riguarda il cambiamento radicale di questa piccola comunità di discepoli dopo l’esperienza dell’incontro con il Risorto, in particolare dopo il compimento di questa esperienza, rappresentato dalla Pentecoste: il passaggio da un gruppo di persone impaurite a una comunità di gente coraggiosa, pronta a testimoniare la potenza del messaggio di Gesù fino, in molti casi, al sacrificio della propria vita, non può essere altrimenti spiegato se non per via di una forte esperienza diretta, concreta, reale, che ha cambiato l’esistenza di queste persone. Una truffa organizzata o un’allucinazione non può aver spinto i primi cristiani a morire per una menzogna.
Certo, come dicevo, rimangono molti interrogativi proprio legati alla diversità delle esperienze di incontro con il Risorto. Qualche elemento in comune a tutti i racconti di apparizione, tuttavia, c’è: in modo particolare uno, ossia l’incapacità a riconoscere in maniera immediata Gesù Risorto. È un elemento che ha dell’incredibile: com’è spiegabile che un gruppo di persone che per almeno tre anni ha vissuto a stretto contatto, possiamo dire “H24”, con una persona che è stata non solamente un conoscente, un collega o un compagno di viaggio, ma una guida, un maestro, un punto di riferimento fondamentale, com’è spiegabile – dicevo – che non possa riconoscerlo visivamente dopo soli pochi giorni di assenza dalla loro vista? Anche da morta, una persona amata ci fa battere ancora il cuore solo al vederne la fotografia! Spavento per l’apparizione di un morto? Paura per la convinzione di vedere un fantasma? Ma qualche momento prima (a volte giorni prima) c’era già stato l’annuncio della tomba trovata vuota, quindi anche solo psicologicamente potevano essere preparati a incontrare faccia a faccia Colui che “non era da cercare tra i morti”, come anche altre testimonianze avevano riportato… Perché allora i discepoli non riconoscono immediatamente Gesù Risorto e vivo?
Anche qui, non credo che si possa tirare in ballo la scientificità, se non immaginando l’incontro con il corpo e il volto di una persona sfigurata dal dolore e dalla morte violentemente subita. Ma il punto non è questo: è come se il Risorto avesse una nuova identità, per cui il rapporto che essi avevano con il Gesù terreno deve andare su un altro livello, attraverso un cammino di riconoscimento che, di fatto, è un itinerario di fede. Da un “vedere” basato unicamente sulla vista esteriore, devono passare a un “vedere-comprendere-credere” basato sull’accettazione interiore di questa novità sconvolgente che è la Resurrezione. Questo riconoscimento comporta il passaggio dal dubbio alla certezza, dalla paura alla fiducia, dal turbamento dello spavento alla gioia dello stupore.
Questo cammino lo vediamo molto bene nel racconto dei discepoli di Emmaus (i quali tra l’altro sono già loro stessi in cammino, e Gesù si fa non più loro guida, ma compagno di viaggio, mettendosi quindi al loro livello) e nel racconto che ne consegue – quello della Liturgia di oggi – quando cioè i discepoli di ritorno da Emmaus stanno raccontando l’accaduto agli altri rinchiusi in casa a Gerusalemme, e Gesù Risorto si presenta a loro e si mette “nel mezzo”, ovvero non nella posizione di guida e di maestro, ma come uno di loro, uno che sta in mezzo a loro, che condivide la loro stessa condizione. E notare che il cammino di riconoscimento di Gesù ricomincia nuovamente da capo! Diamine, almeno i due di Emmaus che l’hanno visto poco prima saranno stati capaci di riconoscerlo! Macché: anch’essi turbati, credono di vedere un fantasma! E allora, ricomincia il lento processo di riconoscimento di Gesù, sullo stile di quello di Emmaus, ma effettuato al contrario: se a Emmaus tutto inizia con la spiegazione delle Scritture che si riferivano a lui e termina con il cibo condiviso, qui Gesù inizia a farsi riconoscere mangiando insieme a loro per poi “aprire loro la mente per comprendere le Scritture”. Poco importa l’ordine delle cose: il cammino di riconoscimento di Gesù Risorto è fatto di questo due elementi, di Pane e di Parola, di Eucarestia e si Bibbia, di studio delle cose di Dio e di comunione con i fratelli.
C’è poco da fare: o di fronte al Risorto fai un cammino di conversione, di cambiamento di mentalità che porta dall’incredulità alla testimonianza, oppure la Resurrezione rimarrà un bel racconto, una bella storiella che non sarà capace di cambiarti la vita. Gesù non è un libro di ricordi, un album di foto da mettere nella vetrinetta del soggiorno: Gesù è vita, e siccome lui è vita, vuole che lo sia anche tu, testimoniando vita in tutto ciò che fai.
Un cantante latinoamericano molto conosciuto in quel continente scrisse, anni fa, una canzone dal titolo accattivante: “Gesù è un verbo, non è un sostantivo”, ossia Gesù non è un’affermazione statica, ma una realtà dinamica, in movimento, in azione, come un verbo, appunto, che descrive e dà il via a un’azione. Non per nulla, egli è il Verbo fatto carne: ora tocca alla nostra carne, alla nostra vita, farsi “verbo”, azione, testimonianza.