III domenica di Quaresima

Sono i giorni della festa di Pasqua, la più importante delle feste di Israele, quella in cui il popolo ricorda e rivive la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto e rende grazie a Dio che lo ha adottato come figlio. Gesù entra nel Tempio, il luogo visibile della presenza invisibile di Dio in mezzo al suo popolo. Notiamo in Lui un atteggiamento non comune, diverso da quanto di Lui emerge dalle pagine dei vangeli: non c’è la pacatezza con cui in altri contesti discute con i maestri della legge; meno ancora la mitezza con cui accoglie peccatori, poveri e malati. Quando si accorge che una parte del grande cortile del Tempio è utilizzato come mercato, dove si comprano e vendono gli animali per i sacrifici e si cambiano i soldi per farlo, non ci vede più. Con forza butta all’aria tutta quell’organizzazione, scaccia venditori e cambiavalute dal Tempio.

Al gesto forte fa seguire una parola che lo spiega: chiama il Tempio “casa del Padre mio” (come quando, nel vangelo di Luca, risponde a Maria che con Giuseppe lo ritrova nel Tempio dopo tre giorni di ricerca) e non sopporta che quella “casa” sia trattata come un mercato. Tutta l’attenzione di chi si reca al Tempio devono essere rivolta a Dio, non alle cose che servono per onorarlo con i sacrifici. Gesù denuncia il rischio, se non l’errore già commesso, di dare più importanza ai mezzi che al fine dei gesti religiosi. Con il suo gesto Gesù vuole ricordare il vero e unico senso del Tempio, cioè quello di permettere l’incontro con Dio, senza ridurlo a un baratto, senza riempirlo di cose materiali.

Quanto Gesù fa indegna i giudei; la sua spiegazione non li soddisfa. L’atto di quel poco conosciuto rabbi di Galilea è una provocazione inaccettabile: Gesù deve esibire una prova che dimostri la sua superiorità sulle leggi e le consuetudini del Tempio, regolate dai sacerdoti ministri di Dio. Chi crede di essere? Come si permette di criticare in modo così pubblico e irriverente la tradizione che tutti accettano? In tutta risposta Gesù dice una frase che appare ancora più incomprensibile del gesto che ha compiuto e che ora è chiamato a giustificare con un “segno”. I giudei, comprensibilmente, interpretano alla lettera il senso della parola “tempio”, e considerano le parole di Gesù come quelle di un insensato. Noi invece siamo aiutati dall’evangelista: ci spiega che Gesù usa il termine “tempio” come immagine per indicare non la costruzione ingrandita e abbellita da Erode nel corso di molti anni, di cui il popolo di Israele andava fiero, ma il suo corpo; parla infatti di distruzione e di “risurrezione” (non di “ricostruzione”). Gesù sta parlando di sé: presenta il suo “corpo” come il nuovo e vero tempio, il luogo visibile della presenza invisibile di Dio. Corpo indica umanità, concretezza: ciò significa che in quello che Gesù è, che fa e dice si manifesta chi è Dio; nel suo corpo si può incontrare Dio. Non c’è più bisogno degli animali per i sacrifici: sono stati tutti sostituiti dall’unico sacrificio, di cui parla Gesù con l’immagine del tempio: sarà distrutto e risorgerà.

Gesù manifesta già all’inizio del vangelo l’esito finale della sua missione: i giudei lo uccideranno, ma egli risorgerà. La morte che gli provocheranno non è più forte del mistero che abita in lui, della potenza di vita che racchiude in sé. Il suo corpo, torturato, ucciso e risorto, sarà per sempre il Tempio, il luogo dell’incontro con Dio, dove Egli offre la salvezza e dove noi l’accogliamo.

I primi discepoli di Gesù in quel giorno non devono aver capito quasi nulla di quello che Gesù aveva fatto (avrebbero capito se avesse messo disordine in qualche drappello di soldati romani, ma non nel cortile del Tempio, centro indiscusso e sacro della religione). È a partire dalla fine che i discepoli comprendono tutto quello che Gesù ha detto e fatto in quel giorno nel Tempio. Dopo la risurrezione del maestro capiscono il senso del gesto compiuto da Gesù, la prima volta che era entrato con loro nel Tempio, centro della religione giudaica. Piano piano hanno capito che il Tempio aveva perso il suo significato, perché Gesù ne aveva rivelato il senso definitivo. Dio non si rivela in costruzioni umane, non si incontra con sacrifici di animali: si lascia vedere nella vita di Gesù, si lascia toccare nel suo corpo ucciso e risorto da morte.

Questo corpo è sempre presente tra noi nell’Eucarestia, che è l’unico e perfetto sacrificio, che non ripetiamo ma che ogni giorno “ricordiamo” come un memoriale, una realtà presente, non del passato, cercando di uniformare tutta la nostra vita a quanto quel pane spezzato e quel vino versato significano.

Anche nel tempio del mio cuore c’è qualche mercato, qualcosa o qualcuno che occupa il posto che dovrebbe occupare Dio?

Lascio che Gesù entri e scacci quello che ostacola il colloquio con Dio? O mi lamento, come i giudei, perché do più importanza ai mezzi che al fine?

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