III domenica di Quaresima
Gesù nella storia ha sempre avuto uno sguardo messianico: non aveva lo sguardo rivolto verso il peccato degli altri ma verso la loro sofferenza. Noi invece, come gli osservatori delle disgrazie altrui che sono in questo Vangelo, puntiamo spesso il dito sui peccati degli altri; e non solo non guardiamo la loro sofferenza, ma ci riteniamo migliori e meritevoli di lodi e grazie. Gesù non rinnegava l’aspetto della colpa personale delle azioni e nemmeno poneva in atto un culto del dolore (molto comune oggi dove si segue la spettacolarizzazione del dolore), ma sentiva e viveva quella compassione che noi spesso dimentichiamo di avere. Periremo tutti allo stesso modo, con un cuore lontano da Dio, se non esercitiamo la virtù del guardare con compassione e non come attenti esaminatori del male commesso dagli altri.
Gesù in questo Vangelo oltre a rivelarci il suo sguardo risponde ad una domanda che tutti abbiamo nel cuore e che riguarda anche il nostro concetto di giustizia: ma il peccato genera nella mia vita la disgrazie? Certamente possiamo affermare che il peccato non genera grazie, non genera mai felicità ma ebbrezze momentanee e passeggere: per questo motivo il peccato diventa convulsivo, perché non può mai saziarci. Gesù però risponde a questa affermazione portandoci a riflettere, chiedendoci in un certo modo: “Pensate che quell’uomo che ha fatto un incidente sia stato punito da me? Allora penserete anche di essere meglio di quell’uomo dato che non vi punisco allo stesso modo?” . Questo principio possiamo associarlo alla torre di Siloe o a qualunque altra disgrazia che succede nel mondo. Gesù pone i due punti fondamentali: Dio è buono, noi dovremmo essere un po’ più umili. Il male è un mistero grande che Gesù non ha mai spiegato a parole, ma con la sua croce ha vinto ogni male, da quello più innocente a quello dovuto agli azzardi che ci procuriamo, a quello dovuto alla negligenza di qualcuno. La sua risposa al male è la resurrezione, è lo sguardo creatore che perennemente Gesù ha avuto sulla vita dell’uomo. Allo stesso tempo Gesù ci introduce ad un’altra parola: il tempo dell’accoglienza.
Come le disgrazie non sono segno della punizione di Dio, anche il fatto che un peccatore continui a peccare non è segno di un Dio lassista, ma di un Dio innamorato che crea uno spazio e un tempo di accoglienza per chi non produce frutti di amore. Forse noi, abituati al tutto e subito, taglieremmo subito fuori quello che non produce frutti buoni. Io credo profondamente che i nostri alberi da frutto nella casa di fondazione dell’istituto abbiano sentito che volevamo tagliarli, visto che dopo cinque o più anni non avevano prodotto frutti, e subito dopo “la minaccia” si sono messi all’improvviso a fruttificare! Noi nel convento ancora ridiamo per questo, ma mi ha fatto pensare a quanto sia profondo questo tempo, che per noi non è tempo della paura del taglio, ma tempo della libertà. Davanti a tutto ciò dovremmo chiederci: ma io ho occhi di compassione per gli altri? Coltivo umiltà, cercando di imparare la bontà da Dio? E poi dovremmo chiederci: ma non è che Dio sta pazientando guardando i miei frutti acerbi o assenti?