IV domenica del tempo ordinario
Il brano evangelico odierno è la prosecuzione di quello di domenica scorsa. Lì, al centro della sinagoga di Nazareth, quel sabato mattina, dopo aver letto alcuni passaggi dal rotolo del profeta Isaia, Gesù rivela che – oggi – quelle antiche parole trovano compimento.
La profezia dei padri sta accadendo. Le parole stanno diventando vita.
Gesù non offre una spiegazione del testo, non fornisce contenuti dottrinali né suggerisce applicazioni morali: semplicemente, invita a fissare lo sguardo sull’evento che dà senso a quelle parole.
Su di Lui.
È un nuovo esodo, più lungo, meno evidente, più difficile, più entusiasmante, più liberante che vi indicato: dalle parole alla Parola.
L’evangelista Luca usa poi un termine a lui molto caro: oggi.
Il tempo dell’intervento di Dio nella storia è l’oggi, il presente.
Gli ultimi tempi sono iniziati: essi hanno perso quel carattere inquietante con cui spesso ce li siamo immaginati: sono ultimi non perché cronologicamente alla fine ma perché esistenzialmente decisivi. Ogni giorno della tua vita è “l’ultimo”, quello in cui opera la mano di Dio; mentre noi andiamo in cerca sempre di qualcosa di diverso da quello che già siamo – come eterni passeggeri di un autobus che non riusciamo mai a prendere – il Signore sta già costruendo la sua casa nella nostra vita.
L’oggi di Gesù annuncia l’avvio di un grande giubileo della storia che non riguarda più un anno in particolare ma è stile che aiuta a liberare, favorisce processi di liberazione, di assunzione della vita, di responsabilità, di sguardo sul mondo e sulla storia; l’oggi di Dio non è un tempo ma un modo di vivere.
Lì, al centro della sinagoga di Nazareth, quel sabato mattina, le sue parole non passarono inosservate.
Chi lo ascoltava, percepiva che esse vibravano di un quid diverso. Non erano i soliti discorsi del predicatore di turno ma avevano il gusto della vita, il sapore di un orizzonte di senso finora sconosciuto. Non giravano a vuoto, corrette ma vuote dentro, frasi di circostanza prese alla fiera dell’ovvietà. Era altro: lo sapevano anche se non riuscivano a raccontarlo.
Ed è così che è nata la meraviglia, l’entusiasmo, lo stupore. (v.22a)
Tuttavia con una rapidità a cui i Vangeli ci hanno abituato, i presenti compiono anche loro un particolare esodo e arrivano ad uno sdegno (v. 28) così forte che lì condurrà a voler uccidere Gesù (v.29).
Lì, al centro della sinagoga di Nazareth, quel sabato mattina, va in scena la rappresentazione dei movimenti di ogni cuore: meraviglia e sdegno, accoglienza e rifiuto, slancio affettuoso e sospetto granitico.
Non deve stupire la differente reazione: sempre il Vangelo chiede di prendere posizione: la Parola è spada che penetra, scandaglia e ferisce; quando la facciamo adattare alle nostre sicurezze, alle nostre convenzioni e alle immagini di Dio che ci siamo costruiti, essa viene percepita come addomesticabile: se “Dio dice e fa” quello che a noi sembra giusto, allora “funziona” e lo “accogliamo”; ma se la Parola viene compresa in tutta la sua potenza, se mette in risalto le tenebre del nostro cuore, se diventa pietra di inciampo che esige una conversione radicale e ci chiede di salpare partire verso orizzonti nuovi, ecco allora che viene avvertita come fastidiosa, invadente, non autentica, provocando un rigetto.
Nella pagina parallela di Marco e Matteo, il rifiuto nasce dalla constatazione dell’origine umile di Gesù: Non è costui il figlio di Giuseppe? Anche Luca sosta su questa perplessità (v.22b) ma dalla risposta di Gesù capiamo che c’è altro, ovvero il fatto che lì, a casa sua, tra i suoi, Egli non ha operato alcun miracolo. (v.23)
Le pagine dell’AT sono piene di passaggi in cui si coglie come Dio operi in terra straniera più che in casa di Israele (I lettura): Gesù conosceva le Scritture, sapeva che esse riferivano questa scelta di Dio. Lo sa e lo dice.
È stata una straniera, una vedova, ad accogliere il profeta Elia dandogli il cibo nel tempo della carestia. La parola di Eliseo invece ha trovato spazio nel cuore di un altro straniero, Naaman il siro, cosa che non avvenne con nessuno dei lebbrosi appartenenti al popolo eletto.
Ci allontaneremmo troppo dal cuore dei concittadini di Gesù, allora, se affermiamo che potremmo trovare in loro quei sentimenti così comuni a noi, quali la gelosia e l’invidia per quanto operato a Cafarnao, lontano da casa?
Non ci siamo anche noi tutte quelle volte che pensiamo che Dio sia “uno dei nostri”, uno “di casa”, che ci è familiare, così familiare da essere scontato, quasi una proprietà privata, su cui affermare una prelazione, un diritto che non conosce asimmetrie?
Dobbiamo riconoscerlo: la consuetudine con Dio e con le cose di Dio non garantisce una fede matura che eviti di trasformare la vita cristiana in una pretesa, una conquista, una garanzia.
E quando questo accade – ed accade più di quanto ne siamo consapevoli – ecco che la gelosia dilaga ed iniziano le divisioni, le contrapposizioni, lo scontro tra chi pretende la titolarità del rapporto con Dio.
Quando perdiamo di vista la gratuità e l’assoluta libertà dell’agire di Dio, nasce nella nostra vita la propensione alla divisione, all’alzare muri, barriere, operando sottolineature e distinzioni fuori luogo: i nostri e i loro, quelli di fuori e quelli di dentro, chi è con noi e chi è contro di noi; la mia comunità, gruppo, associazione e gli altri. La vicinanza con Dio non può diventare pretesa, contrapposizione; seppur preghiamo dicendo “mio Dio”, questo aggettivo possessivo non può avere il sigillo della violenza, della esclusione, del contrasto.
Con le sue parole, Gesù fa cadere ogni muro di separazione: non c’è una terra santa distinta da quella profana; non c’è chi sono coloro a cui è offerta l’alleanza e quelli a cui è negata. No, c’è una vocazione all’universalità che fa guadare e abbracciare tutti, giusti e ingiusti, santi e peccatori, chi se lo merita e chi no, chi ci assomiglia e chi è diverso da noi. Perché noi non siamo al centro dell’universo né il criterio per giudicare il mondo e la storia.
Lì, al centro della sinagoga di Nazareth, quel sabato mattina, questo ci è stato annunciato: nel cuore di Dio c’è posto per tutti e nessuno può rivendicare una esclusività.
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