IV domenica di Avvento
Il sussulto segreto della gioia
Così piccola (Mi 5,1-4a)
«E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda…». La piccolezza non ci piace. Non ci piace sentirci bassi, insignificanti, poco considerati. Il pesce grande mangia quello piccolo, e allora anche in natura esistono insetti e animali che cercano di apparire più grandi di quello che sono. Per sopravvivere. E così può capitare che la storia della nostra vita coincida con la storia della nostra fuga dalla piccolezza, verso l’estensione e l’ingrandimento, vero o apparente, del nostro io. A volte bastano delle scarpe con i tacchi, altre una macchina più grossa, una casa più spaziosa, una posizione più rispettabile, un conto in banca più cospicuo, una estensione della propria azienda. A volte possono perfino bastare un maggior numero di like o di follower a riempire l’orizzonte del desiderio. Almeno per un po’.
La spinta che ha portato alla ramificazione dei grandi imperi è la stessa, ma la stessa è anche la fine ingloriosa che tutte queste grandezze transitorie hanno condiviso. Mi basta passare da via dei Fori Imperiali per ricordarmelo tutte le volte. Mentre però qui a Roma si celebravano i fasti della grandezza imperiale, laggiù, in quella lontana e turbolenta provincia della Giudea costituita da Augusto nel 6 d.C., antiche profezie invitavano a fissare lo sguardo dove dalla piccolezza del più piccolo dei figli di «Iesse il Betlemmita» Dio aveva tratto il messia di Israele, il re Davide (cf. 1Sam 16,1-13). Sì, piccola Betlemme, «…da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele». Sì, proprio da te, così piccola come sei. Nonostante tu sia piccola? No, proprio perché sei piccola, anche se a te non piace. C’è in noi un desiderio di grandezza, che si compirà nel modo più inaspettato. A partire da Betlemme.
Un corpo mi hai preparato (Eb 10,5-10)
In realtà la piccolezza non piaceva nemmeno a chi conosceva quelle profezie, e proprio con quelle profezie ribolliva di desideri di riscatto, di gloria, di rivoluzione contro l’impero, in nome di un altro impero. Ci si aspettava un regno con il marchio di Dio (in fondo non l’aveva promesso Lui stesso, innumerevoli volte?). Ci si voleva avvicinare a Dio, o meglio tirarlo dentro la storia, spronarlo ad agire, a salvare, a perdonare. L’ambigua logica del culto sacrificale (anch’essa col marchio di Dio) poteva anch’essa essere piegata a questo scopo: accrescere il potere, fermarsi all’esteriorità del visibile, alla grandezza del fare umano. Una grande offerta? Una grande benedizione e una grande figura. Un piccola offerta, l’obolo di una vedova: una cosa da nulla. Insomma, una sfida incredibile per chi, dall’Alto, stava per scendere in basso, nel profondo abisso della nostra umanità, per colmare questa immensa distanza. La distanza tra Dio e l’uomo, la distanza tra il nostro infinito desiderio di grandezza, e il vero luogo di approdo di tale traiettoria. Ecco perché «entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato”». Il ristretto confine della nostra corporeità, la fragilità indesiderata da cui sempre in qualche modo fuggiamo, sta per rivelarsi lo spazio intimo dove può realizzarsi una Nuova Alleanza tra il Cielo e la terra.
Colei che ha creduto (Lc 1,39-45)
La piccolezza non ci piace. Ma ancora meno ci piace il ridimensionamento. Un Dio che si rimpicciolisce non serve a nessuno, non è nemmeno Dio. Non può essere Dio, dice la tradizione islamica. Non ci può essere nessun Figlio di Dio nato a Betlemme e crocifisso sul Golgota. Nulla può turbare l’unicità dell’Unico, dell’Assoluto, dell’Onnipotente e Trascendente Dio. Forse anche per noi in fondo è così, perché non ci piace essere rimpiccioliti, ridotti. E proiettiamo in Dio, per esorcizzarle, le nostre paure trasformate in fantasie di grandezza e onnipotenza divine. Già, perché almeno qui in terra è la vita che si incarica a ridurre e ridimensionare le nostre illusioni di grandezza e di felicità. A tal punto che ci siamo ammalati di chero-fobia, la paura di essere felici. Che altro non è che il timore che ogni barlume o sogno di felicità alla fine finisca, facendoci stare ancora peggio di prima. Rivelandosi cioè un sadico inganno. Meglio non crederci quindi. Eppure tutto nel Vangelo (Buona notizia!) parte proprio da un invito alla gioia: «rallegrati (chaire), o piena di grazia!» (Lc 1,28). E la gioia ha fretta. Si espande, vuole diffondersi, ingrandirsi, partorire, nascere, vuole visitarci.
Due donne si incontrano. Da una parte Elisabetta, perfetta figura dell’Avvento, col suo grembo sterile, ma visitato da Dio. Attesa compiuta. Resurrezione della speranza. Discrezione della gioia. Dall’altra Maria di Nazareth, vergine dell’accoglienza, assenso ad una letizia impossibile, custode fedele della Parola promessa. Non siamo ancora a Natale, ma ci prende e ci sorprende già adesso un sussulto di gioia. Quella che danza dentro, nel grembo oscuro della nostra piccola storia. Ci prepariamo a questo oggi, salutando anche noi Maria come Colei che ha osato credere, credere all’adempimento di tutte le promesse di bene che Dio aveva fatto al suo popolo e rinnovato in lei in un modo inimmaginabile. Un presentimento allora si fa spazio in punta di piedi: forse la nostra piccolezza è il luogo in cui tornare per non perdere l’appuntamento con Colui che sta venendo ad abitarla per sempre, per farne il talamo nuziale dove umanità e divinità sussultano insieme, nel segreto, della gioia delle nozze eterne.