IV domenica di Pasqua
“In nessun altro c’è salvezza”. Immagino l’apostolo Pietro che grida con coraggio queste parole davanti al Sinedrio; sì, proprio lui, che poche settimane prima aveva rinnegato Gesù per paura di venire condannato e ucciso allo stesso modo.
L’esperienza della Pasqua e della Pentecoste lo ha cambiato. Ora non teme nulla, neanche la morte, perché sa che solo in Gesù Cristo il Nazareno, crocifisso e risorto, noi possiamo essere salvati.
Il discorso di Pietro, che abbiamo ascoltato con la prima lettura, solleva però diversi problemi. La parola “salvezza” non è facile da interpretare. Che cosa può infatti significare per l’uomo d’oggi?
In una cultura come la nostra, che vede il destino dell’uomo racchiuso dentro i confini dell’esistente, la salvezza è qualcosa che riguarda solo i giorni che viviamo, poiché dopo la morte non c’è più nulla da temere o da sperare. Si parla di “salvare” un file del computer, o di “zona salvezza” nella classifica del campionato di calcio; o anche, in temi più importanti, di “salvare” un matrimonio o un’amicizia dopo un tradimento o una delusione; e, ancora, di “salvare una vita” dopo un intervento chirurgico delicato o una malattia che sembrava incurabile. Tutto rimane però nell’ambito dell’esistenza.
La salvezza guarda oltre. La salvezza significa avere finalmente un respiro così ampio e profondo da esserci per l’eternità, oltre la morte.
Quando entriamo nella certezza che la morte è stata vinta e siamo fatti per l’eternità, per il paradiso, allora ogni attimo, di gioia o di dolore, di salute o di malattia, si illumina di senso. Perché se tutto terminasse con la morte, niente avrebbe senso. Se invece siamo liberi di vivere, tutto si riempie di eternità.
E questo “lo dobbiamo” a Gesù Cristo, il Buon pastore.
L’immagine vuol farci capire che noi possiamo pure dimenticarci di lui – come pecore che non si lasciano più governare dalla voce del pastore – ma egli non può mai dimenticarsi di noi.
È un pastore che per una pecora smarrita è pronto a compiere qualsiasi sacrificio, pur di riportarla alla sicurezza dell’ovile. Il mercenario, è detto nel vangelo, si comporta diversamente perché a lui “non importa delle pecore”.
A Cristo, buon pastore, importa invece delle pecore. “Importa”, cioè siamo importanti per Lui. Talmente importanti che è pronto a dare la sua vita.
Anche chi si definisce “non credente”, “lontano” non sa che Gesù, buon pastore, gli è accanto con una inimmaginabile trepidazione. Perciò a tutte le madri che soffrono per i loro figli dalla fede incerta e smarrita diciamo: “Nessuno è dimenticato e abbandonato, perché su ogni cammino dell’uomo, anche sui percorsi sbagliati, c’è un cuore divino che trepida e attende”.
Questa speranza suscitata dall’immagine del buon pastore è confortata poi da altre parole del vangelo.
“Conosco le mie pecore”, dice Gesù. Si tratta qui di una conoscenza che rispecchia quella conoscenza profonda con cui il Padre e il Figlio vivono la loro reciproca, totale comunione di amore.
Noi conosciamo le persone in modo sempre imperfetto.
Succede perfino che due persone, dopo aver condiviso tutto per molti anni della loro esistenza, a un certo punto arrivino a dire che si erano ingannate perché mai si erano veramente conosciute.
Gesù invece conosce ciascuno di noi nel profondo perché ci ama così come siamo, vede le difficoltà che accompagnano il nostro cammino di fede; vede soprattutto, anche nella coscienza più nascosta e buia, il segno luminoso della nostra appartenenza al Padre perché siamo e rimaniamo sempre figli di Dio.
Gesù ci conosce con quell’intelligenza del cuore che sa scoprire in noi una bellezza interiore nascosta ai nostri occhi, e ce ne rende consapevoli dicendo: “Tu sei un dono e hai dei doni”, perché lo sguardo del Signore è sempre uno sguardo amante. Ed è talmente grande, questo amore, che Gesù offre la sua vita. L’ha offerta e continuamente la offre, non solo per quelli che credono, ma anche per quelli che hanno perduto la fede o faticano a credere o soffrono di non saper più credere.
Ci invita così a condividere il suo sogno di salvezza per tutti: “Ho altre pecore che non sono di quest’ovile”. Da parte di Gesù ci sono dunque tanti segni che promettono salvezza. Per questo è bene confidare in Lui ed è anche doveroso mettersi alla sua sequela. È importante ritrovarci con quell’umiltà che viene suggerita dall’immagine della pecora e anche da quella del bambino, immagine che Giovanni ci riporta, quando ci ha ricordato nella seconda lettura che siamo figli di Dio.
Si salva chi docilmente si lascia educare; chi è sempre aperto all’ascolto ed è pronto a stupirsi per ogni parola che abbia il sapore e lo splendore della verità. Si tratta di un’attitudine fondamentale che, purtroppo, non pare sia molto frequente e coltivata.
Un signore di novant’anni si lasciò andare un giorno a quest’osservazione sapiente: “Ci sono persone che hanno fatto l’università senza aver fatto prima le elementari”.
Voleva dire: “Ci sono persone che sanno tutto e discutono di tutto, anche in fatto di fede, e non sanno le cose essenziali perché non hanno l’umiltà di impararle”.
Tra le cose essenziali ce n’è poi una che non va assolutamente dimenticata: ci si salva se, come Gesù, si è disposti a diventare “pietre scartate”.
Gesù, come ricordava l’apostolo Pietro ai membri del Sinedrio, è “la pietra che, scartata dai voi costruttori, è diventata testata d’angolo”.
Ora, le pietre scartate sono i poveri, i miti, i misericordiosi, gli onesti, cioè tutte quelle persone che sono destinate a essere scartate in un tempo come il nostro che ama i protagonismi, gli arrivismi, la spregiudicatezza dei comportamenti, la notorietà comunque conquistata.
La via da seguire è invece un’altra. Non è infatti una “pietra scartata” chi è pronto a difendere la dignità contro l’arroganza, il senso della misura e della discrezione contro l’invadenza della logica del potere secondo cui tutto si può comprare. Non lo è chi è pronto a servire il vangelo anche a costo di essere perdente. Tutti costoro sono veramente sulla via della salvezza.
Forse non arrivano a professare apertamente il nome di Cristo, ma possiamo dire che per vie misteriose anche loro lo conoscono e lo onorano perché credono nella legge evangelica della “pietra scartata”, della fecondità di un’esistenza vissuta con spirito di servizio e di donazione. La certezza che Cristo è l’unico Dio fedele da seguire, perché da Pastore si è fatto Agnello.
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