IV domenica di Quaresima
Eccoci, come ad un giro di boa, alla IV domenica di quaresima, quella della gioia.
Eccoci, con una delle pagine più famose, più belle, più amate, più studiate, più commoventi del Vangelo: la parabola del Padre misericordioso.
Ci siamo tutti, in questo testo. Ogni volta che ascoltiamo le parole di Gesù che dice: “Un uomo aveva due figli…” sappiamo già di cosa si tratta ma ci chiediamo, di nuovo, a quale dei due figli assomigliamo.
Un uomo aveva due figli. Il primo protagonista è quell’uomo, un padre, il Padre.
Un uomo disposto, davanti alla richiesta della parte d’eredità che spettava al figlio minore, di essere considerato come già morto. Suo figlio non vuole aspettare altro tempo, lui vuole godersi la vita ora, adesso.
È sorprendente che in questo momento il padre non parli. Egli dà tutto, senza battere ciglio. Lascia liberi. Così è l’amore di Dio: ci crea, ci ricrea, si dona, si dà… e lascia liberi.
Quante volte è capitato anche a me di accogliere tanto amore e di sperperarlo, di sciuparlo! Pensiamo a tante persone che buttano la loro vita credendo di essere così libere, da finire dipendenti da qualcuno o da qualcosa. Il figlio prodigo fa questa esperienza. Crede di avere tutto e perde tutto. Si possono avere le cose più belle di Dio, senza rendersi conto di perdere Dio.
Lontano dalla casa di suo padre si accorge di essere ora al livello inferiore dei servi. Si ritrova a pascolare porci, è in una condizione disumana. Di più: è immerso nel fango dei “senza Dio”. E muore di fame, credendo che sia fame solo di pane.
Così è il peccato: tutto ciò che fa diminuire la nostra umanità.
In questo abisso di buio rimane un “santuario” con una piccola luce accesa: “Allora ritornò in sé”. E nel fondo di se stesso il figlio trova due forze: un desiderio di vita, poiché confessa “Io qui muoio di fame”, e la nostalgia della casa in cui i salariati “hanno pane in abbondanza”.
È questo accorgersi, questo capire, questa coscienza di sé e del proprio male l’avvio alla grande avventura del ritorno. Possiamo allora dire che solo chi cerca la vita troverà Dio.
Ed è così che inizia il viaggio, simile e diverso da tanti viaggi di uomini della storia che hanno sperimentato nella lontananza il desiderio di essere di nuovo vicini. E lo si fa non per amore, ma per fame. Non per pentimento, ma perché la morte ci cammina a fianco.
L’istinto di sopravvivenza non ci fa cercare subito un padre, ma almeno un buon padrone che ci tratti anche da servi, ma che ci faccia mangiare.
Nella casa lontana, nel momento stesso dell’abbandono del figlio, era però iniziata l’attesa del padre. E non si è mai stancata, non è venuta meno nel tempo, non si è logorata, impoverita di speranza: rimasta ferma e fedele, protagonista del ritorno.
Perché l’aspettare di Dio non è inerte ma è operoso, desta nel cuore indurito la memoria di lui, lo accende di nostalgia invincibile.
Se il figlio se ne è andato lontano, Dio lo aspetta, cioè gli è vicino.
Anche durante la lontananza, come dirà un giorno Sant’Agostino: “Eri con me e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te” (Le Confessioni, 10, 27, 38).
Nell’abbandono di tutte le porte chiuse, la speranza che “quella” porta si spalanchi fa muovere il primo passo: e incamminarsi è un po’ come essere già arrivati.
“Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò. Padre, ho peccato…”.
Il figlio cercava il pane e una casa, si accorgerà che gli mancava un Padre e il suo amore.
Perché “…quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. “In questo gli si gettò al collo del Padre – afferma p. Marco Rupnik – si consuma la storia di Dio e la storia dell’uomo… La Chiesa si getta al collo del Padre tornando a Lui con i fratelli che hanno scoperto il suo amore vedendolo nell’amore con cui la Chiesa si getta al collo dell’uomo contemporaneo”.
Il padre interrompe i discorsi che il figlio aveva preparato, il suo proposito di tornare come servo. Lo interrompe, per convertirlo proprio da quell’idea. Dio è esclusivamente amore.
È questo il Dio che non conoscevamo. Che insistiamo a non voler conoscere, quando il nostro cuore è come quello del figlio maggiore invidioso di un amore che supera tutti i confini, come quello dei farisei che non sopportano che Gesù mangi a casa dei peccatori e dei pubblicani.
Il figlio maggiore è ciascuno di noi quando crediamo che essere cristiani sia solo questione di regole da rispettare, di doveri da compiere, senza sperimentare l’incontro con una persona da amare.
Il figlio maggiore è ciascuno di noi quando non riusciamo ad accettare come fratello un dissoluto e non accettiamo un padre che fa festa al figlio ribelle.
Il figlio maggiore è l’uomo dei rimpianti, onesto e infelice, che ha perso la gioia di vivere: non ama quello che fa, lo subisce, e il cuore è assente. Aspetta una festa con gli amici che non gli “è concessa” non rendendosi conto che collaborare con il Padre è già una festa!
Quanti cristiani sono così, onesti e infelici, i “cristiani del capretto” li chiamava Padre Turoldo: sono stato bravo, cosa me ne verrà in cambio?
Vivono da salariati e non da figli.
Ma l’amore del padre non è commisurato ai meriti dei figli, sarebbe amore mercenario.
Non si misura su di un capretto. Non c’è nessun capretto, c’è molto di più: “Tutto ciò che è mio è tuo”. C’è una Gioia immensa da condividere.
Il Dio di Gesù è un Dio dalle braccia spalancate perché rimaste inchiodate sulla croce nel gesto dell’accoglienza estrema. Un Dio di misericordia, porto sicuro d’approdo da qualsiasi mare l’uomo ritorni. Purché ritorni.
E l’unica condizione al perdono è quella di lasciarsi perdonare, di riconoscere di averne bisogno. Il resto è conseguente.
Ma dubitare dell’amore di Dio, credere di non contare più, insistere nel buttarsi via, pensare che ci sia un punto di non ritorno offende l’attesa del Padre.
Forse il peccato più grande non è andarsene: è credere di non poter più ritornare.