Pentecoste

Pentecoste significa 50 (giorni) dalla resurrezione di Gesù e ne rappresenta il completamento, perché senza questa festa la Resurrezione sarebbe rimasta incompleta. Gesù aveva detto in precedenza che se non se ne andava non avrebbe inviato lo Spirito Santo, e adesso sappiamo che l’andarsene significa la Sua morte e resurrezione: la Sua umanità doveva passare per questa prova enorme e arrivare a fare l’atto del perfetto abbandono al Padre, e sconfiggere così il pungiglione della morte. Sì, perché la morte non è solo il fermarsi del nostro cuore, ci piaccia o no lo vivremo tutti, ma il pungiglione (così lo chiama S. Paolo) è la paura di essere totalmente abbandonati alla nostra debolezza, di vivere da soli la prova peggiore. Gesù vive la morte sentendosi protetto, affidato, nelle mani del Padre: questo è l’ultimo scalino da salire, poter dire “credo in Te al punto di scommetterci tutta la mia vita”, senza alcun’altra via di fuga.

È perché Gesù ha portato la Sua umanità a questa altezza che ha reso la nostra umanità capace di accogliere lo Spirito del Padre, lo Spirito datore di vita, quello che all’inizio della creazione stava sulle acque e che ha dato vita ad ogni vivente. Il giorno di Pentecoste è il momento in cui Gesù (da fratello nostro) insieme al Padre ci manda lo Spirito e così completare la creazione, perché possiamo anche noi avere un cuore nuovo, capace di essere libero da quella paura che ci attanaglia: la paura della morte. Sapere che nemmeno la morte è capace di separarci da Dio, che la nostra debolezza diventa il luogo dove incontriamo il Signore, la pace nuova che Gesù consegna ai suoi (questo è il significato della formula che ripetiamo a messa). Perché se penso che mi devo “difendere” da solo, che ce la devo fare da solo, io mi carico di un peso insostenibile; se al contrario mi sento accolto, perdonato e amato, allora so che la mia vita non sarà mai abbandonata, che mi difenderà il Padre in persona.

Quando il vangelo di oggi ci riporta le parole del discorso dell’ultima cena, come ce lo racconta Giovanni, parla di una verità tutta intera che ora non siamo in grado di sopportare, di sostenere: è che ci dobbiamo affidare al Padre perché è Colui che ci ama ed è fedele. Per fare questo dobbiamo avere un cuore nuovo, il che non è assolutamente il risultato di sforzi spirituali o chissà cos’altro, ma un dono: il dono dello Spirito.

Il giorno di Pentecoste si compie la promessa di Gesù, che aveva promesso un cuore nuovo, un cuore da innestare nel “marasma” dei cuori, appesantiti da paure e sensi di colpa, di grandi progetti e meschinerie, cuori dai quali può nascere qualcosa di radicalmente diverso ed esplosivo: è questo il boato dello Spirito Santo. La scena che accade nel cenacolo è la versione in grande di quello che sta accadendo nei cuori dei 12: scende con un boato lo Spirito come una fiamma. Quella fiamma fa pensare al roveto ardente di Mosè: brilla ma non brucia, è capace di attirare perché fa luce e scalda, ma non consuma, non è violento. È capace di tirare fuori quello che mai avrebbero pensato di avere: il coraggio e la gioia di parlare a tutti di Cristo, di annunciare il Regno di Dio, e questo non come se fosse una lezione di teologia (o di catechismo) ma dal cuore dei fratelli: questa è la lingua natia che ciascuno quella mattina ha sentito.

Dal marasma del cuore lo Spirito Santo fa nascere persone nuove, complete (prima erano come un feto che aspetta di essere partorito) che adesso hanno una libertà e una fiducia/franchezza (in greco si dice parresia), che prima era solo un miraggio. Perché il frutto (da fare attenzione perché è unico, quindi non un po’ di quello o di quell’altro, ma tutto e tutto insieme, è il dono per eccellenza…) dello spirito (la seconda lettura) è per chi ha scelto di non rimanere ancorato alla propria piccineria, facendola diventare l’unico metro con cui misurare il mondo (la carne e la sua concupiscienza), ma di diventare grande, di sviluppare la bellezza del cuore che Dio ci ha dato, diventando persone che fanno un frutto di vita eterna nella vita degli altri.

Questo discorso penso che divenga evidente nella vita di ogni giorno: come si fa a parlare la lingua giusta per farsi capire? Tra moglie e marito, tra genitori e figli, quale è il modo di comprendersi veramente?

È la lingua di chi ti capisce perché non si difende da te, sa che non gli sei nemico, non pensa al suo interesse ma pensa solo al tuo e così dà gloria a Dio. Pensate che libertà poter non pensare a sé stessi, non tenere più la contabilità del bene che facciamo…

Così: come si fa a vivere nella gioia, nella mitezza, nella castità, proprio oggi in un mondo che ti indica di realizzare immediatamente ogni possibile desiderio? Come si può essere liberi da quella fame di vita e di piacere che riduce la vita a semplice soddisfazione?

Che libertà bisogna avere per donarsi agli altri senza aspettarsi un grazie?

Se fossero cose da fare con uno sforzo di volontà è meglio lasciare perdere, ma quello che Gesù oggi ci indica è un dono che ci sta facendo, qui e ora, a noi, peccatori come siamo, anche se non riusciamo a capire e a desiderarLo come dovremmo eppure ti chiede solo di poter compiere in te la sua nuova creazione, o se vuoi di portare a compimento l’opera del Padre, darti un cuore a immagine del Suo.

Gli auguri al termine della celebrazione è perché ci sosteniamo nel nostro si, proprio come Maria, anche se abbiamo paura della santità, anche se il nostro angoletto ci fa sentire più sicuri, siamo attirati alla luce vera, alla vita vera. Che Dio porti a compimento l’opera che ha iniziato in te!

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