Santa Famiglia di Gesù
Le letture di questa domenica, a ben considerare, non ci parlano direttamente ed esplicitamente della Santa famiglia: ci parlano invece della fede; della fede di Abramo e di Sara, cioè dell’Antico testamento, cioè della fede di coloro che attendevano Colui che doveva venire, e non lo videro se non “come un simbolo”; della fede di Simeone e Anna, ancora figure dell’antica alleanza, che hanno potuto invece contemplare “con i loro occhi” Colui che attendevano ormai venuto e presente; e infine della fede di Maria e Giuseppe, figure della Chiesa, cioè della nuova ed eterna alleanza compiuta in Cristo. Ed è soltanto in tal modo che possiamo parlare della Santa Famiglia di Nazareth, e della famiglia in quanto tale; è solo alla luce di questo che posso cercare di illuminare il mistero della mia famiglia. Infatti io sono o padre, o madre, o figlio o figlia, o vedovo o vedova, insomma, sono anch’io in una famiglia, ed il mistero del Natale deve parlare anche a questa dimensione di me stesso. Gesù parla non solo a me in quanto individuo, ma anche in quanto sono in un certo contesto: questo è la mia famiglia, quella che è e non quella che in teoria dovrebbe essere stata.
La prospettiva più sbagliata sarebbe proprio quella di vedere la Santa Famiglia un po’ come la versione cattolica delle famiglie che vediamo nelle pubblicità: un luogo ideale di armonia, in cui non ci sono problemi e tutti si vogliono bene e vivono tutti felici e contenti. Quelle famiglie, come ben sappiamo, non esistono. E così la Scrittura ci mostra uomini e donne reale, non ideali. Così il brano della Genesi ci mostra un Abramo, figura dell’uomo di fede, della fede stessa di Israele, deluso di Dio: “non mi hai dato discendenza”, cioè “i miei problemi sono colpa tua”, e quindi “che cosa mi darai?”, che cosa puoi darmi, tu che te ne stai lassù? Mi fa venire in mente la domanda che i discepoli pongono a Gesù: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Che cosa ne otterremo?”. A cosa mi serve essermi sposato in Chiesa, avere cercato di vivere se non santamente, almeno onestamente? Che cosa mi resta della tua promessa? La Scrittura dice: dobbiamo forse proclamare beati, o furbi, quelli che si sono saputi arrangiare, che hanno fatto i furbi, senza farsi illudere dalla fede e da tutto quello che si dice in Chiesa? A che cosa mi è servito essere stata fedele a mio marito, o a mia moglie, se poi mi sono ritrovato solo? A che vantaggio avere rifiutato scorciatoie o strade più semplici, che in fondo anche tutti avrebbero capito? Ognuno di noi può sviluppare questo ragionamento, a partire dalla propria esperienza, collocandosi nella propria storia.
Bisogna lasciarsi “condurre fuori”, cioè compiere un esodo, un uscita, che è quella della fede: di fronte all’amarezza del dato di fatto, al sordo rimprovero che l’incredulità pone alla mia vita, Abramo “credette al Signore”, o ri-credette, o, se volete, incominciò di nuovo, e più profondamente, a credere. Perché non crediamo una volta sola e per sempre, ma continuamente si ricomincia, e lo Spirito ci conduce, attraverso le prove, a ripetere il nostro “eccomi”, per una conoscenza, cioè un’esperienza, sempre più intima del nostro Signore e Salvatore. Cioè ad affidarsi, ad affidare a Lui la nostra vita; nel verbo “fidarsi” c’è appunto la parola “fede”, che è il centro intorno al quale girano tutte le letture di oggi. La fede è fiducia, ed è affidamento; e “fede” noi chiamiamo appunto anche l’anello che gli sposi mettono al dito.
“So a chi ho dato fiducia”, dice sa Paolo, cioè a Cristo: e così noi diamo fiducia a Lui, e perciò diamo fiducia a nostra moglie, a nostro marito, ai nostri genitori o ai nostri figli. Cioè noi costruiamo il nostro stare insieme, o il nostro provare a stare insieme, il nostro continuare insieme, il nostro resistere allo sgretolamento al quale siamo sottoposti da ogni parte, a partire da quello “stare insieme” di Lui a noi, appunto dal Natale, dal suo essersi rivelato presente in mezzo a noi nella Parola e nel Sacramento, la nostra nuova mangiatoia.
Così la Santa famiglia ruota intorno a Gesù: è Lui la fonte del loro volersi bene, poiché non c’è amore, anche umano, se non da Dio; è Lui, creduto non per quello che agli altri appariva, un figlio qualsiasi, ma per quello che era davvero, che ha dato forza nella prove e conforto nelle tribolazioni. Lui è stato il loro scudo, come Dio stesso ad Abramo. Certo, Giuseppe fu sostegno e rifugio per Maria nei giorni tristi dell’esilio in Egitto, lontano da casa per lunghi anni, e ancora lui provvide a lei sostentandola e offrendole la sua casa e il suo affetto; ma anche lei fu per lui aiuto e sostegno, poiché si affidarono l’uno a all’altra, e entrambi a Dio. E così beati quell’uomo e quella donna che invecchiano insieme fin dalla loro giovinezza. Ma era il Figlio che più profondamente li sosteneva, tanto nei momenti più bui quanto in quella vita quotidiana che possiamo intravvedere dietro quegli anni in cui il bambino “cresceva e si fortificava”. Vorrei ricordare come a un certo punto Giuseppe scivola via, per così dire, dal Vangelo, non se ne parla più; facciamo memoria anche della vedovanza di Maria, la sua solitudine di donna senza il suo sposo. Anche lì il Figlio la sorresse e sostenne.
E così accade anche per noi: uomini e donne reali, con le prove che viviamo, in un mondo ostile come lo fu per loro, ma anche nei giorni piò ordinari e tranquilli. Fidandoci di Dio possiamo continuare a fidarci gli uni degli altri, a costruire anche l’amore umano, così delicato e vulnerabile, su Colui che ci ha amato per primo. Come Giuseppe e Maria possiamo custodire nel cuore le parole che ascoltiamo, contemplandole fatte vere nel Figlio a noi dato. La nostra memoria, il nostro intelletto, la nostra fantasia, può toccare, vedere, ascoltare, con i sensi della fede, quel Gesù che si è fatto loro figlio, Lui che è il vero ed unico Figlio dell’eterno Padre, e vederlo presente nella nostra vita.
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