Santissima Trinità
Difficile parlare del Dio di Gesù Cristo, a cominciare dal nome, che abbiamo dovuto addirittura inventare – Trinità -, perché nel vocabolario corrente mancava un’espressione adeguata a definirlo con una sola parola. Come inizio non c’è male, direbbe qualcuno!…
Vangelo di riferimento è quello di Matteo, ultimi cinque versetti.
I fatti della passione, morte e risurrezione sono ormai compiuti, la mattina di Pasqua Cristo appare ad alcune donne e ordina loro di avvertire gli Undici che li aspetta in Galilea.
Gli Apostoli si presentano all’appuntamento e, riconosciutolo, si prostrano innanzi.
Ma, rivela il primo Evangelista, ancora dubitano, non solo qualcuno, tutti!
Gesù non ci fa caso e consegna loro il mandato di fare discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando ad osservare tutto ciò che aveva loro comandato. Infine la promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.”: Matteo attira l’attenzione del lettore, non tanto sull’apparizione del Risorto – l’unica, peraltro, ad esservi raccontata! -, ma sull’ascolto da parte degli Undici delle ultime rivelazioni del Maestro.
Già il luogo è significativo: la Galilea dei pagani, sul monte; il significato è eminentemente teologico e pastorale: in Galilea era risuonata la prima parola di annuncio dell’imminente avvento del Regno; sul monte il Signore aveva promulgato il nuovo Evangelo della salvezza, le Beatitudini.
La notazione dell’incredulità dei presenti allude piuttosto allo stato di crisi che la comunità dell’Evangelista stava attraversando, verosimilmente a motivo delle prime persecuzioni.
Che cosa significa credere che Gesù è il Risorto? quali conseguenze per la vita dei credenti? Come si configura la comunità cristiana postpasquale? che rapporto esiste tra Gesù di Nazareth e il Cristo? La risurrezione rappresenta il punto di rottura con la (Sua) vicenda terrena, oppure vi si deve riconoscere una continuità di fondo? è sufficiente adorare il mistero del Cristo per manifestare la fede in Lui, oppure si richiede l’obbedienza ai Suoi insegnamenti?
Quando l’Evangelista scrive sono già trascorsi quarant’anni dai fatti narrati, ma il problema del significato dottrinale e pastorale è ancora e sempre lo stesso; idem ai giorni nostri: la fede può risolversi in un assenso intellettuale, dogmatico, tutt’al più in atteggiamenti religiosi, oppure
coinvolge, compromettendolo, il comportamento morale?
Possono sembrare disquisizioni inutili e oziose – che scoperta, lo sappiamo tutti che la fede si realizza nelle opere! -; ma, ascoltando le confessioni dei fedeli, si riconoscono due filoni di pensiero, a proposito della fede: coloro che confessano i loro atti religiosi – Messa, preghiere, devozioni private – senza alcun accenno al vissuto personale; e coloro che, al contrario descrivono le loro vicende personali e familiari, ma saltano a pié pari il capitolo della preghiera…
Segno che tra vita morale e orazione non c’è pressoché alcuna relazione, ma vera e propria separazione.
Questo è un primo problema che si evince dagli ultimi versetti del primo Evangelo. Riflettiamoci!
Ed ecco la famosa formula battesimale trinitaria.
Battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo rappresentò un’importante evoluzione liturgica dal più antico battesimo nel nome di Gesù Cristo.
Prima però, l’autoproclamazione del Risorto quale depositario di ogni potere, in cielo e in terra, in virtù della risurrezione operata dal Padre suo.
È in nome di questi poteri, che il Signore invia gli Undici a fare discepoli tutti i popoli.
Potremmo obbiettare che Gesù fosse già in possesso dei poteri divini, durante la sua vicenda terrena – uno che insegnava con autorità e non come gli scribi; il grande riformatore del culto nel Tempio; colui che perdona addirittura i peccati,… -.
Vero; tuttavia l’evento della risurrezione amplifica e assolutizza questi poteri, liberandoli dai vincoli del tempo e dello spazio, e rendendoli così trasmissibili agli apostoli di ogni luogo e di ogni tempo. Uscendo dal sepolcro, il primo giorno dopo il sabato, Gesù è il Cristo, Signore del tempo e della storia! Gesù è l’unico mediatore della Salvezza; per aver parte a questa salvezza è necessario diventare Suoi discepoli.
Non basta ancora: il discepolato cristiano non è una (nuova) forma di vocazione individuale, ma si realizza esclusivamente entrando a far parte della comunità cristiana. Ciascuno di noi non può esimersi dal fare i conti con il proprio senso di appartenenza, in un contesto nel quale il lavoro, lo studio, e ultimamente, la pandemia, hanno profondamente intaccato il tessuto comunitario che costituisce la Chiesa locale.
Una fede cristiana ristretta ad acclamazioni liturgiche e a celebrazioni rituali della gloria del Risorto, ridotta a saltuarie esperienze carismatiche e a fenomeni pentecostali, intesa unilateralmente sulla lunghezza d’onda dell’entusiasmo dello spirito, trova in questo testo la condanna definitiva. Il Risorto non ci salva dalla storia, protetti in circoli aristocratici dalla spiritualità disincarnata; al contrario, Cristo ci immerge nel presente, a fronteggiare le esigenze di un impegno concreto, obbediente, accordato sull’Amore.
Ma, in questo impegno arduo e non privo di rischi, non siamo soli!
Gesù promette di rimanere con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Se Gesù di Nazareth aveva indicato la strada da percorrere, il Cristo Risorto ci dà la forza per camminarci.
L’impegno trova nel dono di Grazia la sua radicale possibilità!
Alla mensa della Sua Parola e del Suo corpo, noi attingiamo le energie sufficienti per il viaggio che ci condurrà tutti insieme alla Gerusalemme del Cielo.
E così sia!
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