Santissimo Corpo e Sangue di Cristo
Da quando l’umanità ha la percezione del concetto del Sacro, del Divino, di un Assoluto superiore alle proprie forze e alle proprie capacità, prima ancora di riuscire a dargli un nome e un volto, prova nei suoi confronti un senso di venerazione e di rispetto che molto facilmente sfocia poi in un atteggiamento di timore reverenziale, se non addirittura di paura verso qualcosa che non solo non si può dominare, ma di fronte al quale ci si sente un nulla, ci si sente smarriti. Pensiamo a cosa possono aver provato i primi uomini di fronte, per esempio, a manifestazioni della natura (terremoti, fenomeni meteorologici, eruzioni e via di seguito) nei confronti delle quali ancor oggi tutti noi, pur trovandoci in un’era di avanzata tecnologia anche dal punto di vista previsionale, ci sentiamo piccoli e impotenti, e spesso, appunto, impauriti. Il timore, la paura del Soprannaturale, del Sacro, di quello che poi diverrà la Divinità, spinge l’uomo a gesti propiziatori, ovvero ad azioni volte ad aggraziarsi, a tenersi buono l’elemento soprannaturale, perché non agisca contro l’umanità, bensì in favore suo. Nasce così il concetto dell’offerta, del sacrificio, ovvero del dono di qualcosa di sé attraverso azioni e riti simbolici che hanno come scopo quello di “placare” l’animo del Soprannaturale e del Divino, ritenuto spesso “assetato” dell’umanità, della vita degli uomini: potremmo dire, del loro corpo e del loro sangue, a volte proprio anche in senso letterale, se pensiamo ai sacrifici umani di culture ancestrali che poi evolvettero in sacrifici animali o in offerte dei prodotti della terra.
Questo concetto di sacrificio propiziatorio sta alla base di tutti i riti celebrati all’interno di una comunità umana che si sente “legata” (“religione” ha proprio la stessa etimologia di “legame”) intorno a un “luogo sacro” (un tempio, un antico santuario), dove la Divinità dimostra la propria benevolenza nella misura in cui le si offre, le si dona qualcosa. Con il tempo, questo concetto del sacrificio crea intorno a sé un vero e proprio apparato, un’istituzione, un insieme di riti che, regolati da una gerarchia (il sacerdozio), diventano un momento di mediazione tra l’umanità e la divinità.
Fu così anche per il popolo d’Israele, che nel suo periodo aureo poteva contare su uno dei templi (quello di Gerusalemme) più belli e più famosi dell’umanità. E i sacerdoti, gli scribi, i dottori della Legge e tutte quante le autorità religiose giudaiche in generale approfittavano di questa situazione privilegiata per ribadire la loro importante funzione mediatrice tra il popolo e il Dio dei loro padri: in pratica, era possibile accedere a Dio solo attraverso sacrifici, offerte e oblazioni mediate dalla loro potente intercessione… che comportava ovviamente anche una percentuale di compenso a loro favore, con tutti gli abusi del caso.
Possiamo immaginare, perciò, quanto sconvolgente doveva apparire il discorso di Gesù alle autorità religiose del suo tempo, alle quali (dopo aver dato da mangiare miracolosamente a cinquemila uomini con soli cinque pani e due pesci) si presenta dicendo “Io sono – che, come sappiamo, è l’appellativo del Dio dell’Esodo – il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. La reazione è altrettanto sconvolgente: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Ed è riferita non solo a una possibile affermazione di “cannibalismo” o “antropofagia”, ma anche e soprattutto alla simbologia che ci sta dietro: come può costui, che si proclama – ammesso che sia vero – il Dio dell’Esodo, il Dio dei nostri Padri, presentarsi a noi come offerta, come sacrificio di se stesso, quando siamo noi a dover offrire in sacrificio propiziatorio quantomeno i frutti della nostra terra e del nostro bestiame, se non addirittura noi stessi?
Gesù ribalta completamente l’idea del rapporto tra Dio e il suo popolo: non più un popolo che deve offrire sacrifici e doni al suo Dio, ma un Dio che offre al suo popolo il dono più grande che egli ha, ovvero se stesso, la propria vita. Il sacrificio eucaristico, l’Eucaristia come la veneriamo oggi nella Solennità del Corpo e Sangue di Cristo e come, in particolare, ce la presenta il capitolo 6 del vangelo di Giovanni, non è un nostro dono a Dio, o perlomeno lo è non come gesto propiziatorio per tenercelo buono, bensì come azione di grazie per i frutti della terra che egli ci ha donato, e che egli ci restituisce come sacrificio, come dono suo a noi. Quello che noi doniamo in sacrifico a Dio è infinitesimamente piccolo rispetto a quanto egli ci restituisce. E per di più, senza alcuna mediazione – come invece avveniva tra i sacerdoti d’Israele e il popolo – perché l’unico mediatore tra Dio e gli uomini è suo Figlio Gesù Cristo. Ci pensa lui a metterci in contatto diretto con Dio, partecipando del banchetto del suo Corpo e del suo Sangue: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”.
Ci verrebbe da dire che, allora, pensa lui a tutto quanto: all’offerta da donare in sacrificio a Dio, a entrare in contatto con lui, a ricevere vita, a essere in comunione perfetta con lui e con il Padre. Proprio così: pensa a tutto quanto lui. A noi spetta solo un compito: credere. Credere che veramente è così, e che non c’è altro modo per vivere l’Eucarestia.
Smettiamola di pensare che se andiamo a messa siamo bravi cristiani, facciamo un sacrificio, ci meritiamo la salvezza, otteniamo dei meriti davanti a lui. È tutto ed esclusivamente un dono di Dio, è pura grazia. A noi spetta solo il compito di riceverlo come dono e di credere che è veramente così.
Ricordiamocelo, ogni volta che diciamo quell’ “Amen” al momento della Comunione!
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