VI domenica del tempo ordinario
Nelle letture di questa sesta Domenica del tempo ordinario risuona più volte la parola: lebbra. Al tempo di Gesù la lebbra era una malattia spaventosa. Va ricordato che nell’Israele antico il lebbroso rappresentava la persona emarginata per eccellenza: colpito da una malattia sentita non solo come ripugnante, ma anche come dovuta a una punizione divina per i peccati commessi, il lebbroso viveva la condizione più disperante e vergognosa in Israele. Alle sofferenze fisiche si aggiungevano infatti quelle connesse alla sua separazione dalla famiglia e dalla società poiché vi era la convinzione che questa malattia fosse talmente contagiosa da infettare chiunque fosse venuto in contatto con il malato, e ogni lebbroso, vedendo la sua carne spaventosamente mangiata dalla malattia, era indotto a comportarsi come se fosse ormai morto. Inoltre, oltre alle sofferenze fisiche, vi era il giudizio religioso che faceva del lebbroso un peccatore e, dunque, un castigato da Dio. Dicevano: o ha peccato lui, oppure qualcuno della sua famiglia.
Ebbene, sul fenomeno della lebbra le letture di questa Domenica ci permettono di conoscere l’atteggiamento prima della legge mosaica e poi del Vangelo di Cristo. Nel brano tratto dal Levitico si dice che la persona sospettata di lebbra deve essere condotta dal sacerdote il quale, dopo averla esaminata, dichiarerà quella persona impura (cf Lv 13,3). Da quel momento «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (I Lettura).
L’antico Libro del Levitico, come si nota, traccia una linea di comportamento igienico-sanitario nei confronti degli ammalati di lebbra. Disposizioni severissime per la paura che incuteva questa terribile malattia.
Non occorre però scandalizzarsi troppo di fronte a questa ingiustizia, perché è la stessa che noi commettiamo ancora oggi, quando siamo tentati di giudicare la malattia di un altro quale esito di un comportamento immorale; oppure quando di fronte alla nostra malattia, ci poniamo la domanda: «Che peccato ho fatto? Perché questo castigo da parte di Dio?»…
Vediamo ora come si comporta Gesù nel Vangelo. Marco scrive che «Venne da lui un lebbroso». Gesù non lo allontana, come imponeva la legge, ma accetta di incontrare una persona che tutti evitavano; una persona che era costretta a vivere in luoghi deserti e a svelare la propria condizione a chiunque stesse per avvicinarglisi. Ebbene, Gesù lo lascia avvicinare a sé, fino ad ascoltare ciò che il lebbroso vuole dirgli: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Alla vista di quest’uomo l’evangelista annota che Gesù «ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”». Egli, dunque, toccandolo, supera la legge interpretandola con misericordia e in tal modo, purifica, guarisce, restituisce alla condizione di vita piena quel povero sventurato.
È da notare che il lebbroso aveva detto a Gesù: «Se vuoi, puoi». Queste parole significavano un enorme atto di fiducia e cioè: «Io conto su di te e so che a te è possibile guarirmi». Ciò significa che nessuna malattia, nessuna sofferenza, nessuna disgrazia deve diventare pretesto per allontanarci da Dio. Essere cristiani significa abbandonarci e avere fiducia in lui perché «nulla è impossibile a Dio» (cf Lc 1,37). Essere cristiani, inoltre, significa anche non emarginare l’anziano, il malato, il sofferente, il povero ma avere compassione per il prossimo e amarlo. «Se pensiamo solo a noi stessi non vivendo la carità non diciamo di essere cristiani!» (san Paolo VI).
Come possiamo dimenticare il grande gesto compiuto da san Francesco d’Assisi quando abbracciò il lebbroso? Proprio il giorno in cui ha deciso di abbracciare il lebbroso, il poverello d’Assisi ha capito sinteticamente tutto il cristianesimo e ha incominciato il suo cammino di sequela fino a divenire «somigliantissimo a Gesù».
Gesù è la santità che brucia ogni nostro peccato, è la vita che guarisce le nostre infermità, egli è colui che «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (cf Is 53,4a).
L’episodio evangelico si conclude con Gesù che manda il lebbroso dal sacerdote perché confermi la sua guarigione. Era infatti indispensabile il giudizio del sacerdote per restituire piena dignità sociale a questo lebbroso ormai guarito. In questo caso Gesù rispetta la legge e ne riconosce la validità. Egli, dunque, dimostra così di non essere venuto ad abolire la legge, ma a «darle compimento», cioè a realizzare quello che la legge prescriveva di fare, ma non dava la capacità di fare.
Il racconto è caratterizzato da uno straordinario clima di normalità. I maghi e i guaritori sono dei ciarlatani che illudono e ingannano le persone: più si parla di loro, meglio è. Non è così per Gesù. Infatti il Maestro Divino dirà al lebbroso guarito: «Guarda di non dire niente a nessuno» ma egli, scrive Marco, «si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto».
Divulghiamo anche noi la misericordia di Dio e chiediamo al Padre nostro che è nei cieli di risanarci dal peccato che ci divide e dalle discriminazioni che ci avviliscono. Che il Signore ci aiuti a scorgere nel volto del prossimo l’immagine del Cristo Gesù, unica nostra salvezza. Amen.
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