VI domenica di Pasqua
SCARICA il foglietto Parrocchiale – 6a Pasqua
SCARICA il Sussidio-preghiera-personale-Sesta-Domenica-di-Pasqua
SCARICA il Sussidio-preghiera-in-famiglia-Sesta-Domenica-di-Pasqua
Fa effetto, oggi, pensare che sia l’ultima messa celebrata senza popolo. Da domani, finalmente, potremo, con le dovute precauzioni e attenzioni, tornare nelle nostre chiese. E, anche se in tutto questo periodo non è mai mancata la comunione tra noi, abbiamo tutti avvertito questo desiderio e questa nostalgia della comunità.
In questa sesta domenica di Pasqua è difficile trovare un nucleo centrale nel vangelo di oggi. C’è però una parola che può conquistare facilmente il nostro cuore.
Si tratta di una promessa colma di tenerezza: “Non vi lascerò orfani”.
Essere orfani è un’esperienza che, in forme diverse, conosciamo tutti. L’orfano non è solo chi ha perso un genitore, un padre, una madre, un dolore che sembra un taglio netto con le proprie radici, con la propria storia…
C’è chi è orfano perché ha perso una persona cara e chi si sente orfano perché ha perso un maestro, un partito, una chiesa, una causa ideale, qualcosa insomma o qualcuno che rappresentava una ragione fondamentale di vita.
Anche questo tempo di isolamento è stato un tempo di “orfanezza”, in cui più o meno tutti abbiamo avvertito in alcuni momenti di essere rimasti anche senza Dio. Anche senza perdere la fede è possibile passare attraverso il senso di un’assenza. Sì, a volte, è questa la nostra impressione: Dio ci lascia.
Come i discepoli di Gesù alla vigilia della passione, avvertiamo la prospettiva dolorosa della separazione. E quando il senso dell’abbandono diventa radicale, è facile scegliere la via della fuga: dalle amicizie, dalla vita con gli altri, perfino da se stessi, da quell’io profondo e autentico che custodisce la speranza.
È il dramma di non poche persone che, tormentate dai problemi della vita e della morte, come dal senso dell’esistenza, li risolvono anticipando con violenza la loro fine.
Per questo la promessa di Gesù, “Non vi lascerò orfani”, può trovare in noi, oggi, un’attenzione particolare.
Qual è allora la via per uscire da una condizione di assenza e di vuoto?
Gesù accompagna la promessa con il dono dello Spirito, chiamandolo “Paraclito”. Paraclito è un nome curioso: vuol dire anche “consolatore”, “protettore”. Ma il termine greco letteralmente significa “avvocato che non abbandona il suo cliente”.
A questo proposito vale la pena di osservare che la tradizione ebraica chiamava paracliti tutti quelli che intercedono presso Dio: gli angeli, i patriarchi, i profeti e anche le buone opere dei giusti.
Il Paraclito per eccellenza, per la nostra fede, è Gesù. Ce lo ricorda Giovanni nella prima delle sue lettere: “Se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato (Paraclito, nel testo greco) presso il Padre: Gesù Cristo giusto” (1 Gv 2, 1).
La missione dello Spirito Paraclito si ricongiunge quindi a quella di Gesù Paraclito.
Ci piace pensare che il compito dello Spirito sia soprattutto quello di intercedere per noi a partire dalla nostra condizione di orfani.
Lo Spirito conosce le sofferenze di chi si sente solo, non capito né accolto, di chi ha perduto qualsiasi ragione vitale e non ha trovato nulla che valesse a riempire il vuoto. Lo Spirito conosce anche le sofferenze, e queste più nascoste, di tanti giovani che la sera cercano rumorosamente di dimenticare almeno la loro solitudine se non di trovare un orizzonte di comunicazione.
E lo Spirito Santo, come scrive Paolo nella lettera ai Romani, “intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26).
Forse un giorno sarà lui ad alleggerire le nostre responsabilità dicendo: “Ha tanto sbagliato, nella sua vita, ma anche ha tanto patito nel sentirsi solo”.
Ma prima di questo momento lo Spirito avrà moltiplicato i suoi interventi non solo presso Dio, ma anche, come Consolatore, presso di noi.
Eppure lo Spirito esercita l’opera di consolazione in modo diverso da noi. Quando infatti noi vogliamo consolare qualcuno per la perdita di una persona cara, ci affidiamo per lo più alle parole. Con gli apostoli lo Spirito ha operato diversamente. Non ha suggerito parole di conforto, ma ha cancellato la separazione stessa, assicurando, con la sua presenza, quella di Cristo e del Padre.
Gli apostoli si dovevano preparare ad una presenza diversa, non più fisica, quella che sperimentiamo noi. Ma non per questo meno reale. Unendo la sua umanità in Dio (è il mistero dell’ascensione che celebreremo domenica prossima) Cristo ha permesso di inserire la nostra umanità in Dio, facendoci immergere nel respiro d’amore tra Padre e Figlio, in un Abbraccio di fuoco che non ci lascerà mai orfani, perché siamo diventati anche noi figli nel Figlio, grazie allo Spirito.
Il Cristo quindi non va cercato lontano o rimpianto come una presenza perduta, ma va riconosciuto e annunciato.
Lo Spirito, infatti, che è passione e movimento, non ama le situazioni tranquille in cui la fede sia vissuta solo come consolazione personale.
Un cristianesimo di questo tipo non appassiona nessuno, ancor meno i giovani che si innamoreranno solo di un cristianesimo che sia testimonianza viva e gioiosa; e si inseriranno in comunità dove non si sentono orfani, ma avvertono l’aria di una famiglia, dove c’è un sacerdote che, come un padre, genera alla vita; e dove trovano una chiesa-madre, che dà fecondità.
Siate “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”, ha raccomandato l’apostolo Pietro nella seconda lettura.
E poiché la speranza del cristiano è il Cristo, parlate di Cristo, non con parole spente prese dai libri, ma con parole attinte dal vivo della coscienza, dalla profondità del cuore.
Uscire dall’isolamento di questo periodo sia un’immagine forte di una Chiesa che esce veramente, non a parole, verso il mondo ora ancor più assetato della Parola di verità, carica di tutto il dolore e di tutta la speranza di questo mondo.
Chi ci insegnerà questa parola? È lo Spirito, il Paraclito, consolatore e anche sovvertitore delle nostre troppo comode rassegnazioni.
Penso a Filippo di cui si è parlato nella prima Lettura.
Come sappiamo, era uno dei sette, scelti per il servizio delle mense, per un servizio, diremmo oggi, di origine caritativo-assistenziale.
Ora vediamo che Filippo diventa un annunciatore della Parola di Dio allo stesso titolo degli apostoli. Era preparato per questa seconda attività? Sì, perché chi è abitato dallo Spirito è abilitato a parlare di Cristo. È una parola che fa corpo con la vita di chi, innamorato di Cristo, è pronto a “soffrire operando il bene piuttosto che fare il male”, a somiglianza di Lui che, come ci ha ricordato l’apostolo Pietro, “è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti”.
Perché chi ama vive. E amando, rende possibile all’umanità di conoscere la vera gioia, perché là dove arriva il Vangelo, fiorisce la vita; come un terreno arido che, irrigato dalla pioggia, subito rinverdisce.
È la passione che spiega tutta la straordinaria avventura di Gesù fino alle ultime parole, quelle che abbiamo trovato nel vangelo: “Non vi lascerò orfani… Io vivo e voi vivrete”.
Domani, giorno delle riaperture delle celebrazione con il popolo, è il centenario della nascita di Giovanni Paolo II. Rimasto orfano di madre da bambino e di padre da giovane, lui ci ha insegnato che non è mai orfano chi vive di Cristo, aprendogli le porte senza paura. Apriamo, spalanchiamo le porte a Gesù e al suo Spirito. E allora le porte delle nostre chiese non si chiuderanno mai. Resteranno aperte non solo per entrare, ma anche perché possiamo uscire a portare il Vangelo a tutti, affinché il mondo non sia mai orfano di Dio.
Stampa Articolo