VII domenica del tempo ordinario
Disarmare. È forse questa l’azione più efficace che Gesù propone nei paradossi della Nuova Alleanza. Disarmare il potere del male, spogliarne di efficacia le strategie, svuotarne il contenuto. Il male esiste, e la cosiddetta ‘legge del taglione’, l’occhio per occhio, dente per dente ne aveva da secoli smussato la gravità. Oggi verrebbe da desiderare che almeno si vivesse, nella società globalizzata, il limite di una giustizia equiparata all’errore, anziché le vorticose escalation di violenza di cui i notiziari ci aggiornano (…se ancora fanno notizia!). Ma Gesù non è tipo da accontentarsi. La sua è la logica dell’amore incondizionato e traboccante, e quindi non ci si può accontentare: il male, la violenza, l’ingiustizia vanno disarmati.
A tale scopo, la Parola del Maestro ci riporta prima di tutto alla dimensione relazionale del male. Esiste il male sociale, un mysterium iniquitatis (mistero di iniquità) che è doveroso denunciare e per il quale ogni cristiano ha il compito di spendere il meglio delle proprie energie spirituali, psicologiche e fisiche. Tuttavia, ogni comunità è costituita da persone. E dunque la radice dell’odio e della violenza abita nei cuori, coinvolti e impegnati nei rapporti con gli altri. È lì che va spostato lo zoom del nostro agire da cristiani.
Così si rende possibile l’arte del disarmo. Prima di tutto delle offese ricevute, che vengono scardinate nella loro forza di ferire con il paradosso dello stupore, con la fantasia della carità, con il rischio dell’esagerazione. Gesù sembra invitare a sfidare l’avversario che aggredisce con il coraggio di oltrepassare l’offesa…intensificandola! Porgere l’altra guancia significa sminuire il peso del primo schiaffo; lasciare il mantello oltre alla tunica implica ridurre il valore di quanto serve a coprirsi, ma non a scaldare i cuori; aggiungere strada a chi ti ha costretto a farne con lui vuol dire spostare l’attenzione sulla sua presenza, piuttosto che su un castigo; dare in prestito è cedere alla suprema legge della libertà interiore.
Disarmare l’avversario, in fondo, significa allora sfoderare le armi dell’avvicinamento e dell’esagerazione. Il contrario di quanto si usa fare quando si intravede un pericolo, di fronte al quale siamo naturalmente portati a difenderci o a fuggire, e così la tensione aumenta e forse anche l’animosità dell’aggressione. Proprio come un pugile, ormai sbattuto di colpi, che anziché ritirarsi o insistere a volersi contrapporre all’altro, si avvicina e si lascia cadere sulle sue spalle, abbracciando l’avversario così da neutralizzarne le potenzialità di infierire. Si rende innocuo il nemico, quindi, cambiando la logica della propria testa; in fondo, il disarmo parte dal proprio cuore.
Significa rinunciare a pensare di doversi salvaguardare, né tanto meno di voler ripagare con la stessa moneta. Si evita di cadere nel circolo vizioso della sfida rabbiosa, quasi a dover dimostrare di non essere da meno nella violenza. Il disarmo comincia così dal riconoscere che in fondo di avversari e nemici personali ne abbiamo soltanto se crediamo di dover garantire una qualsivoglia neutralità davanti al dolore dell’altro. Che è pure il violento, l’aggressore, il carnefice, l’oppressore. Nella logica di Gesù, il nemico viene disarmato perché nel cuore dell’aggredito si scardina l’idea di dover avere nemici.
È il mysterium amoris (mistero dell’amore) del Padre, che ‘fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni’; prima i cattivi, forse perché ne hanno più bisogno. Con la conseguenza ancor più paradossale che tutti sono suoi figli. E sta in fondo qui il senso e la possibilità che si compia il miracolo della misericordia, quella verità di noi stessi che ci fa vibrare della perfezione del Cielo: se ci accorgiamo di essere fratelli, e di essere soprattutto anche noi fra i privilegiati accarezzati dai raggi del sole, senza merito e senza vanità, riconosciamo non solo il dovere, ma la capacità di sbizzarrirci nell’amore. Non per essere migliori, ma sì, per render il mondo migliore, evitiamo di resistere alla misura alta della santità.
Non sia mai che, impauriti dalla possibilità di infrangere le miserande leggi della convenienza e della competizione, consideriamo avversario e nemico il Padre, che dà uno schiaffo al nostro orgoglio. Che ci chiede di lasciarci spogliare della tunica del nostro rancore. Che ci invita a fare con Lui un pezzo di strada, sperando che in noi nasca il gusto di camminare, anzi di correre dal sepolcro vuoto all’annuncio alla città della Risurrezione. Che ci domanda in prestito cuore, piedi e mani per costruire una società nuova, dove venga definitivamente sconfitto il male.
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