XIII domenica del tempo ordinario
Se chiedessimo a un bambino che differenza c’è tra un premio e un regalo, credo che non avrebbe difficoltà a rispondere esattamente. Sa bene, infatti, che entrambi sono cose che si ricevono e che, ricevendole, provocano gioia, felicità: ma sa altrettanto bene che non sono la stessa cosa. Un regalo si riceve gratuitamente, in occasione di una ricorrenza come il compleanno o il Natale, oppure quando qualche parente ritorna da un viaggio e, in maniera inattesa, gli porta un presente: e generalmente, al regalo è associato il concetto di sorpresa, e come per tutte le sorprese, l’elemento di stupore, di gioia, di meraviglia, accresce la bellezza del dono. Un premio, invece, può forse essere più sostanzioso e a volte anche più prezioso di un regalo, ma si sa già con anticipo di che cosa si tratta: e si sa perché, per ottenerlo, occorre metterci impegno, sforzo, fatica, dispendio di energie. Ossia, un premio non ha in sé l’elemento della gratuità: sarebbe come pensare che i premi vinti in un supermercato accumulando bollini siano frutto dell’erogazione liberale e generosa dei proprietari del medesimo…in genere, un “premio” si paga in abbondanza, e soprattutto in anticipo.
Ho fatto questa introduzione forse un po’ banale perché credo ci possa aiutare a comprendere meglio il lungo brano di vangelo di oggi, che mette insieme due prodigi di Gesù difficilmente comprensibili a pieno se presi in maniera distinta. Gesù viene interpellato da uno dei capi della sinagoga, quindi un uomo della Legge e delle istituzioni, perché possa guarire la sua figlioletta di dodici anni in grave pericolo di vita. Essendo un garante della Legge di Mosè e della salvaguardia della fede di Israele, l’idea che muove la sua richiesta disperata è quasi certamente legata al concetto di retribuzione: sono un uomo delle istituzioni, sono al servizio del Dio d’Israele, per cui chiedo a Dio che mi conceda non una grazia, ma ciò che mi spetta per diritto, ovvero una guarigione. Sono un uomo di Dio, e Dio non può non prendersi cura di me, per cui la mia richiesta è quasi un comando: “Vieni e imponile le mani perché guarisca”. E che il gesto richiesto a Gesù sia quello chiesto a un taumaturgo, a un guaritore che agisce per retribuzione o riconoscenza, si intuisce anche dal fatto che – nel momento in cui nulla è più possibile, perché la fanciulla è morta – si dice a Dio di lasciar perdere: è arrivato troppo tardi, non c’è più niente da fare. Non è più possibile dare alcun premio al capo della sinagoga per il servizio da lui compiuto a Dio, in quanto Dio sembra averlo abbandonato, per cui non va più disturbato. Anzi, chiedere al Maestro che venga a imporre le mani a un cadavere sarebbe come istigarlo ad andare contro la Legge, che proibiva nella maniera più assoluta di toccare un cadavere, pena l’impurità rituale, e quindi l’impossibilità di entrare nella sinagoga o nel tempio.
E qui entra in campo non più il Dio del premio, della retribuzione, del “do ut des”, ma il Dio della gratuità, il Dio del regalo, il Dio della sorpresa, quello che va oltre ogni regola e ogni umana ragionevolezza e chiede solo di continuare ad avere fede: non nel Dio della retribuzione, ma nel Dio della grazia. A costo anche di venire derisi perché il Maestro ritiene Dio più forte non solo della malattia (e fin qui, poco male), ma anche della stessa morte. Il capo della sinagoga opera in sé e nella sua famiglia una conversione: andando contro la Legge, accetta che Gesù tocchi il cadavere della fanciulla perché torni alla vita, non in virtù della bontà di Giairo, ma della grazia di Dio che va oltre la disperazione umana. Giairo e la sua famiglia diventano segno del nuovo popolo di Israele (non per nulla, la figlia ha un’età simbolica, dodici anni), un popolo che rifiuta il Dio che premia i buoni e accetta il Dio che fa grazia ai poveri e ai disperati.
E come se non bastasse, il regalo della sua grazia lo dona non solo ai disperati, ma anche ai peccatori, ai “cattivi”, a quelli che – sempre secondo la Legge – non avrebbero alcun diritto di chiedere nulla a Dio. Anche questi entreranno a far parte del popolo d’Israele, perché anche per essi c’è un numero dodici che fa la differenza: e anch’essi vengono considerati “figli”. Dodici anni di vita della bambina terminano con la resurrezione che va oltre la morte; dodici anni di malattia e di morte, fisica ed economica, della donna affetta da emorragia, terminano allo stesso modo, con la salute e la vita ritrovata. Ma ciò che sconvolge di più è che la fede dell’emorroissa è ciò che le permette di scoprire che il miracolo non è un premio dato alla sua bontà, ma un regalo dato alla sua necessità, senza che lei lo meritasse. Se avesse dovuto guardare al merito e alla bontà di questa donna ragionando con i canoni della Legge, Gesù non solo non avrebbe dovuto guarirla, ma addirittura condannarla: questa donna, secondo la Legge di Mosè, viveva in uno stato di impurità permanente da moltissimo tempo, per di più andando sempre peggio, segno che neppure Dio poteva o voleva più fare nulla. Era condannata a vivere al di fuori del villaggio, o comunque a non stare in mezzo alla gente, perché avrebbe contagiato tutti non con la malattia ma con la sua impurità. Questa donna è talmente cocciuta (cattiva, direbbe la Legge) che si getta in mezzo a una folla enorme rendendola totalmente impura, e addirittura, in maniera deliberata e voluta, tocca Gesù, rendendolo il più impuro tra tutti gli impuri, simile a lei. Ha trasgredito la Legge, che fino allora non l’aveva certo premiata e non l’avrebbe più fatto, per andare incontro alla Grazia, una Grazia che salva non perché dà un premio ai meriti dell’uomo, ma perché agisce gratuitamente, regalando vita a chi la chiede con fede.
La discriminante è proprio la fede: e Gesù vuole che tutti sappiano che è questione di fede. Per questo, pur nell’urgenza di dover salvare una bambina (ma lui non ha fretta, perché il suo tocco di salvezza glielo donerà anche da morta), si ferma e chiede con insistenza chi ha fatto questo, perché allora e lungo i secoli diventi modello dell’umanità nuova salvata dalla gratuità di Dio e non dai meriti accumulati dagli uomini.
Quando, allora, ci viene da pensare che le cose di Dio siano dispensate ai buoni come premio per le loro buone azioni, rileggiamo più volte e con attenzione questo brano, e scopriremo che Dio non salva premiando i buoni, ma donando la sua grazia ai disperati. La grazia di Dio, non dimentichiamolo, non è un premio per quelli che sono bravi, ma un rimedio per quelli che fanno fatica: altrimenti, se non fosse così, il paradiso rimarrebbe terribilmente e desolatamente vuoto…