XIX domenica del tempo ordinario
«Non temere, piccolo gregge»! Le parole di Gesù con cui si apre il vangelo odierno, sono un invito alla fiducia. Oggi nel mondo c’è tanta cattiveria, falsità, egoismo, ipocrisia e, spesso, il vero cristiano è sfiduciato. Però, questa espressione del Signore significa: «State tranquilli, non spaventatevi, non vi amareggiate, fidatevi di Dio e certamente non ve ne pentirete perché lasciando tutto per Dio, facendo la sua volontà e obbedendo ai suoi comandi, riceverete il centuplo e la vita eterna». E allora, anche quando la Chiesa è perseguitata, quando la fede è derisa, restiamo con Cristo e lasciamoci guidare da Lui. Pensiamo per un momento al martirio di santo Stefano: un giovane circondato dall’odio di un tribunale, non si lascia piegare, intimorire. Egli sa quel che rischia. Egli vede i sassi già pronti per l’esecuzione. Eppure è deciso e resta fedele a Cristo. Per lui la vita conta solo se vissuta per Cristo e quindi non esita a perderla perché sa che il Signore gli darà in premio la vita eterna. Paolo vede, assiste e, certamente, disprezza Stefano. Ma un giorno Paolo scriverà: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (cf Fil 3, 8).
Il vero discepolo, dice Gesù, è colui che non accumula tesori su questa terra: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove il ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore». La vita è preziosa, si accorcia ogni giorno di più e, perciò, non va sciupata, ma vissuta con la maggiore intensità possibile ricordandoci sempre che se Gesù è il nostro vero tesoro, colui per il quale vale addirittura la pena di perdere la vita (cf Lc 9, 24), saremo anche capaci di orientare tutta l’esistenza verso la sua venuta alla fine dei tempi. La verità più bella del cristianesimo è che la vita non è la festa, ma l’attesa della festa. Noi cristiani siamo infatti per definizione coloro che vivono «con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (cf Tit 2, 13), «coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (cf 2Tm 4, 8). Il brano del vangelo ci invita, inoltre, all’attesa vigilante, per non essere impreparati quando il Signore viene a bussare alla nostra porta: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito». A questo mandato egli unisce una promessa: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli». Per chi lo attende con perseveranza il Signore ripeterà i gesti compiuti nell’ultima cena, quando si è fatto servo dei suoi discepoli e ha detto loro: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (cf Lc 22, 27). Sì, dobbiamo sempre essere ben desti, perché il Signore Gesù, il Figlio dell’uomo, verrà nell’ora che non pensiamo, come un ladro nella notte; per chi avrà saputo attenderlo – «e se, giungendo nel bel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» – si compirà allora la sua parola: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno» (cf Lc 22 28-30).
Infine, sollecitato da Pietro: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?», Gesù trae alcune conseguenze delle sue parole per quanti nella comunità hanno responsabilità di guida, responsabilità «pastorali». Gesù, infatti, attraverso le sue parole che valgono per tutti, vuol far capire che il favoritismo appartiene alla terra e non al cielo. È vero che tutti siamo invitati a vigilare, però è anche vero che il Signore, il «Pastore supremo» (cf 1Pt 5, 4), ha affidato ad alcuni il compito di essere amministratori fedeli e sapienti, incaricandoli di dare «la razione di cibo a tempo debito» ai con-servi. Ebbene costoro, cioè i pastori della chiesa, sappiano di essere chiamati a svolgere il loro ministero quali «servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (cf 1Cor 4, 1). Se questi servi saranno trovati intenti al loro servizio «beati loro», perché di percosse ne riceveranno poche; se invece, per l’affievolirsi dell’attesa del Signore, cederanno alla tentazione di spadroneggiare sul gregge loro affidato (cf 1Pt 5, 3), saranno puniti con severità poiché non potranno dire di non essere stati avvertiti: «Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse».
Il piccolo gregge della chiesa non deve temere nulla dall’esterno: l’unica minaccia seria può venirgli da se stesso, dalla sua incapacità di amare il Signore Gesù e di tenersi pronto alla sua venuta nella gloria. È questa attesa vigilante che dà senso alla nostra vita e ispira il nostro comportamento quotidiano. Lo aveva ben capito san Basilio, il quale scriveva: «Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare costantemente ed essere sempre pronto a compiere ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene».
Chiediamo a Dio Padre che arda nei nostri cuori la stessa fede che spinse Abramo a vivere sulla terra come pellegrino, e che non si spenga la nostra lampada, perché vigilanti nell’attesa della sua ora siamo introdotti da lui nella patria eterna. Amen.
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