XIX domenica del tempo ordinario
Cinquemila uomini, senza contare donne e bambini (che in genere attorno a Gesù sono sempre di più), hanno mangiato gratis sul far della sera, tra lo stupore dei discepoli che volevano mandarli a casa anzitempo. È dunque notte, ora è giunto davvero il momento di congedarli. Se ne occupa il Signore che invece costringe i discepoli a salire su una barca per attraversare il lago di Tiberiade (Mt 14,22). Ancora una volta, un ordine assurdo. Nessuno sul lago di Tiberiade, allora come oggi, si metterebbe in testa di attraversarlo di sera. Una serie di incroci di correnti d’aria in quel posto genera di notte fenomeni climatici pericolosi che scoraggiano la navigazione. Ma cosa ci volete fare, Dio sembra quasi divertirsi a chiedere cose illogiche a chi vuole seguirlo. Lui comunque se ne va a pregare e lascia da soli i suoi amici. Soli contro un mare agitato dai venti contrari (Mt 14,24).
Non è forse così che ci si sente spesso con Dio? Si cammina con Lui, si cerca di conoscerlo, di capirlo, di scrutare i suoi passi, e poi ti vedi piombare addosso improvvise tempeste, pericoli, ostacoli e difficoltà che si eviterebbero volentieri. Invece non si può. Gesù ci ordina di entrare dentro tutto ciò, il suo intento è farsi conoscere. Ma in principio ci si sente terribilmente soli, lasciati a sé stessi. Questo accade quando si entra in contatto con le nostre paure profonde. Ecco la chiave di lettura del testo di oggi. La vita vissuta nella fede è una lenta, faticosa navigazione per andare ad affrontare le nostre paure. Affrontarle significa entrarci dentro, abitarci, non perché Dio si diverta a vederci spaventati, ma perché è lì dentro che vuole entrare: lì infatti si rivela come Colui che ce ne libera.
A nessuno fa piacere, inizialmente, affrontare la propria paura più profonda. E c’è di più. Il vangelo ci fa capire che non è bene decidersi di affrontarla senza prima rivolgersi al Signore Gesù. L’impresa per noi è impossibile. La traversata non poteva compiersi se Gesù non fosse andato loro incontro camminando sul mare, (Mt 14,25-26) un’azione che l’uomo non potrebbe mai fare, per poi salire sulla barca dei discepoli. In mezzo ci sono i nostri tentennamenti nel cammino, rappresentati dal comportamento e dalla richiesta di Pietro che, per un attimo, riesce a fare quel che Gesù fa, ma poi scopre di avere una paura ancora troppo grande rispetto alla sua fede (Mt 14,28-30). Chi è allora Gesù, e chi siamo noi? Gesù è il Dio sempre vicino all’uomo, sempre pronto a stendere subito la sua mano per afferrarlo nelle vertigini delle sue paure. Noi, amati da Lui, destinati a fare esperienza di Dio nel toccare il nostro limite, vivendo nella nostra radicale fragilità, una cosa a cui ci si deve educare perché non ci piace affatto.
Signore salvami! – grida Pietro che affonda. Il coraggio dell’uomo per la Bibbia non è quello degli eroi grechi della nostra cultura, né quello dei contemporanei Avengers cinematografici dai poteri sovraumani. Il coraggio dell’uomo non è assenza di paura, ma è saper gridare a Dio da essa. E Dio si fa scoprire che in noi è più profondo di essa e ci dà il potere di vincerla. Bisogna solo rivolgersi con fede verso di Lui. Una mamma o un papà che sentissero gridare il proprio bimbo dalla culla, scatterebbero subito per andare a prenderlo nelle proprie braccia, qualunque fosse il motivo del suo grido. Siamo chiamati a fare la stessa cosa con il Signore. Tutto ciò che avviene nella nostra vita può sempre risvegliare la fede nel suo amore di Padre/Madre. Dunque fede e paura sono realtà antitetiche nel cuore dell’uomo: più c’è una, meno c’è l’altra. Ma il mio grido a Dio fa mettere la paura al servizio della fede. Allora quel che mi è impossibile, diventa possibile. Allora giungo anch’io, come i discepoli quella notte, a prostrarmi e dirgli: tu sei veramente il Figlio di Dio! (Mt 14,33)
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