XVI domenica del tempo ordinario
Chissà se esiste la comunità ideale, civile o religiosa, fa lo stesso: ossia, una comunità in cui tutti quanti vadano d’accordo, in cui tutti la pensino più o meno allo stesso modo, e comunque nella quale vi sia la possibilità di accantonare immediatamente chi la pensa in maniera differente rispetto alla massa o chi, spesso per puro spirito di contraddizione, fa di tutto per mettere il bastone tra le ruote alle iniziative e alle idee degli altri. Chissà se esiste una comunità in cui nessuno calunnia nessuno, in cui nessuno dice una parola cattiva su nessuno, in cui nessuno mette le persone le une contro le altre.
Oppure una comunità – in questo caso di credenti – dove per tutti quanti sia evidente e chiaro il messaggio di fede; dove tutti quanti i fedeli possano riconoscere la grandezza di Dio e professarla, magari grazie anche a manifestazioni forti e particolari della divinità stessa in mezzo al popolo; dove non ci sia bisogno di catechizzare, esortare, formare, perché tutto quanto è già chiaro ed evidente a tutti.
O chissà se esiste una comunità cristiana nel mondo che possa permettersi di vivere “sopra le righe”, ossia distaccata da tutto e da tutti, cittadina del mondo solo per necessità, ma poi libera da preoccupazioni terrene e materiali; una comunità, dove si possa vivere isolati dai problemi che ci sono nel mondo perché tanto è inutile, e quindi è meglio rimanere tutti concentrati a cercare sempre e solo Dio, a raggiungere la perfezione disinteressandosi delle cose di questo mondo.
Io credo che la risposta possa essere semplice quanto scontata: comunità come queste, civili o religiose, non esistono affatto. E anche qualora esistessero, nessuno di noi avrebbe problemi ad ammettere che sarebbero comunità alquanto strane e avulse dalla realtà. Come si può pensare che in un gruppo di persone che non si scelgono tra di loro, ma che si trovano casualmente a condividere tempi e luoghi della loro esistenza, si possa decidere di mettere al bando persone (buone o cattive che siano) che la pensano diversamente? Come si può pensare che tutti quanti debbano credere in Dio in maniera forte e significativa? Com’è possibile pensare di vivere nella quotidianità di questo mondo senza entrarvi a contatto?
Eppure, è ciò che spesso sogniamo di poter fare, a volte dicendolo esplicitamente, a volte anche solo desiderandolo. Quante volte, infatti, anche noi vorremmo fare come i servi della parabola della zizzania, desiderosi di estirpare quanto prima il male presente nella società? Quante volte noi stessi diciamo che staremmo molto meglio e molto più tranquilli se non circolassero in giro certe persone, se chi di dovere la facesse pagare come si deve a quelli che commettono qualche errore o che hanno un comportamento scorretto? Quante volte, molto più semplicemente, diciamo che in comunità lavoreremmo meglio se tutti quanti andassero d’accordo e facessero le stesse cose, possibilmente quelle che vogliamo noi? Quante volte diciamo che sarebbe bene “fare un bel repulisti” all’interno dei vari di gruppi d’impegno della comunità, magari eliminando le persone che ci sono antipatiche o che non fanno le cose come diciamo noi (ammesso che il nostro modo di fare sia quello giusto)? Quante volte anche nella storia della Chiesa sono apparsi gruppi, movimenti, correnti di pensiero, che hanno voluto fare del messaggio di Cristo una cosa “per pochi eletti”, facendo selezione tra le persone, eliminando chi era ritenuto inadeguato? Quante volte la zizzania viene seminata proprio da coloro che dicono di volerla eliminare? Quante volte vorremmo che Dio applicasse lo stile di un giudice severo, giusto e inappellabile, ancora prima di aver dato la possibilità a ognuno di convertirsi? Quante volte accusiamo Dio di essere troppo debole, chiedendogli spiegazione della sua indulgenza, come i discepoli chiesero spiegazione a Gesù del perché di una parabola come quella della zizzania, in cui bene e male convivono da sempre e per sempre sulla terra?
No, Dio non è debole solo perché indulgente. Dio è forte proprio perché indulgente. “Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere”: con queste parole l’autore del libro della Sapienza ha aperto la strada al messaggio evangelico di Gesù, un messaggio che rende il Regno dei Cieli il luogo della speranza, e non della disperazione, dell’accoglienza e non dell’esclusione, della normale convivenza tra bene e male e non della settaria divisione tra buoni e cattivi.
E se vogliamo capire qualcosa di più di questo Regno dei Cieli, allora iniziamo a capire che non è un Regno che ragiona con la logica dei Regni di questo mondo, che si impongono con la potenza delle armi e del denaro; il Regno dei Cieli si impone con la logica del granello di senape, una cosa insignificante e inutile agli occhi degli uomini, come un arbusto selvatico che spunta in un orto, eppure la sua forza sta nel farsi trasportare in ogni angolo del mondo dal soffio dello Spirito, capace di dare riparo, ristoro e protezione all’uomo in ricerca.
Ma l’insignificanza, la pochezza, la piccolezza, non sono neppure sempre segno di inutilità, anche quando l’apparenza delle cose che avvengono nel mondo sembrano travolgere il Regno dei Cieli e inglobarlo nella massa informe dell’indifferenza e del devastante strapotere della materia sulle cose dello spirito: perché, se è solo per quello, anche il lievito è una polverina insignificante all’interno della massa di acqua e farina, eppure nessuno mette in dubbio la sua utilità, senza la quale non ci può essere pane da spezzare e da condividere.
Che senso ha, quindi, pretendere di imporre il Vangelo con la forza, magari con l’aiuto di un manipolo di credenti eletti e selezionati, eliminando dalla comunità chi non si comporta come vorremmo noi, quando il Regno dei Cieli annuncia la Buona Notizia nell’apparente inutilità di un granello di senape e nell’insignificante utilità di un pizzico di lievito?