XX domenica del tempo ordinario
Pensare che il messaggio cristiano sia qualcosa di pacifico che mette tutti quanti d’accordo solo perché parla di uguaglianza, di fraternità, di amore verso il prossimo, è quantomeno utopico. Se così fosse, infatti, non ci sarebbero divisioni all’interno della comunità dei credenti: nonostante le diversità e le peculiarità di ognuno, si riuscirebbe a camminare comunque nella stessa direzione, uniti dallo stesso ideale. Ma la realtà – tanto la storia universale del cristianesimo quanto la storia locale delle nostre piccole comunità cristiane – ci dimostra chiaramente che non è così. Contrasti, litigi e incomprensioni sono all’ordine del giorno, e lo sono sempre stati. E non sto parlando della persecuzione nei confronti dei credenti in Cristo: checché se ne dica, quando sosteniamo di essere bersagliati e presi di mira perché frequentiamo la chiesa, nessuno di noi ha la benché minima idea di cosa significhi essere perseguitati per aver aderito al messaggio cristiano. E per rispetto dei cristiani che veramente ed eroicamente ogni giorno lottano per sopravvivere e far sopravvivere la loro fede, non dovremmo neppure osare pronunciare questa parola – “persecuzione” – sapendo che cosa essa realmente significhi sulla pelle e nella carne di chi la vive.
I contrasti, i bersagli di cui siamo oggetto, le incomprensioni e le liti che viviamo a causa del messaggio evangelico, li viviamo principalmente qui, all’interno delle nostre comunità cristiane, piccole o grandi che esse siano. Non dimenticherò mai le parole sagge del mio vecchio parroco che, qualche giorno prima della mia ordinazione sacerdotale, fece un’affermazione che ancora oggi suona per me come una sacrosanta verità: “Ricordati – diceva – che i contrasti più grossi alla tua vita di fede non ce li avrai da chi non viene in chiesa. Quelli, al massimo, ti dimostreranno indifferenza. Le persone più ostili e con le quali avrai più problemi saranno all’interno della comunità, anche tra quelli che in chiesa ci vengono più spesso di altri”. Già: le fatiche più grosse in una comunità cristiana, a parte le situazioni di persecuzione, si vivono e si provano all’interno della comunità stessa, anche per motivi di carattere e di personalità differenti che, incontrandosi e cercando di lavorare insieme, inevitabilmente si scontrano, ma non solo per quello. Il messaggio stesso del vangelo ha insita una dimensione di contrasto, di contraddizione, di frattura che porta i credenti a doversi inevitabilmente schierare più che contro il messaggio stesso, contro chi lo vive, ovvero contro i propri fratelli di fede. Come dice il Signore con quelle forti immagini del Vangelo di oggi, il suo messaggio è “un fuoco acceso”, “un battesimo in cui immergersi con angoscia”, un messaggio che parla di pace ma che non porta pace, bensì divisione.
Come mai? Perché questo Gesù così focoso e quasi arrabbiato, oggi? Perché ci dev’essere divisione, all’interno della comunità dei credenti in Cristo? Forse proprio perché il messaggio di Gesù non lascia e non può lasciare indifferenti. È un messaggio talmente forte e talmente appassionato, di fronte al quale occorre fare delle scelte e avere il coraggio di viverle con coerenza, accettando di mettersi in gioco fino in fondo; di accendere il fuoco della passione per il vangelo all’interno di una comunità (e il fuoco può fare piacere perché scalda, ma può fare anche paura perché brucia e devasta); di lasciarsi immergere nell’acqua della grazia (questo è il significato del battesimo) che può lavare e purificare, ma nella quale si può anche correre il rischio di annegare.
Quando poi il Maestro passa a “spiegare”, a esemplificare queste sue affermazioni forti, lo fa con immagini che riprende dalla vita di famiglia, ma che richiamano alla mente della comunità ebraica che li ascoltava un filone presente nella tradizione profetica, quello dei contrasti tra padri e figli (potremmo dire i contrasti generazionali) che molto spesso ha portato i profeti a prendere le parti delle giovani generazioni come segno del desiderio di cambiamento rispetto a una tradizione ormai obsoleta, stanca, priva di stimoli e di passione per Dio. Al più, quando non si schieravano a favore delle giovani generazioni, i profeti invocavano l’aiuto di Dio perché “i cuori dei padri si riconducessero verso i cuori dei figli”, come troviamo anche nell’annuncio della nascita di Giovanni Battista, uomo ponte tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Ecco: è proprio questo passaggio dall’antico al nuovo nella comunità dei credenti a segnare la rottura, la divisione che il vangelo porta nel gruppo dei discepoli di Cristo, e che non può non portarci a prendere posizione. Se – riprendendo i vangeli delle scorse domeniche, che insieme con quello di oggi fanno parte di un unico discorso – la visione veterotestamentaria della ricchezza era quella di essere un segno della benedizione di Dio, l’uomo nuovo del vangelo vede nella ricchezza un pericoloso tentativo di autosufficienza che non tiene in conto della signoria di Dio sulla vita; se nell’Antico Israele accumulare tesori era segno della propria laboriosità con cui si mettevano a frutto le capacità ricevute da Dio, nel Nuovo Israele il tesoro più grande è quello a cui affidiamo il nostro cuore, ovvero la solidarietà con i fratelli, il bene condiviso, l’amore vicendevole che va oltre la logica dell’egoismo.
Non si smetterà mai di vivere conflitti generazionali, anche all’interno di una comunità cristiana, perché – c’è poco da fare – Gesù stesso ci mette lo zampino ispirando un senso di novità e di rinnovamento talmente forte che non può lasciare nessuno indifferente: però forse è il caso di capire che non si tratta solo di visioni diverse dovute all’età e all’epoca in cui si è cresciuti.
Riguarda piuttosto la novità del Vangelo e la sua forza, alla quale occorre fare spazio, con tutti i mezzi. Anche se a qualcuno fa male: ma il fuoco del Vangelo non può essere lasciato morire.
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