XXIV domenica del tempo ordinario
L’episodio della confessione di Pietro a Cesarea di Filippo riveste un ruolo centrale nella tradizione sinottica e, in particolare, nel Vangelo di Marco. Collocato quasi al culmine della narrazione, ne rappresenta uno degli snodi fondamentali.
Cesarea, città situata ai piedi del monte Ermon, alle sorgenti del Giordano, in terra pagana, era stata ricostruita dal figlio di Erode il Grande, Filippo: siamo molto lontani da Gerusalemme, praticamente all’opposto. È una indicazione geografica ma dal forte valore simbolico.
Ed è in questo luogo lontano, periferico, intriso di paganesimo che ha luogo il riconoscimento di Gesù quale Messia. A Gerusalemme, invece, Egli sarà condannato come blasfemo. Un contrasto, tuttavia, ben più complesso di quanto possa sembrare: a Cesarea, infatti, la confessione resta ambigua, accompagnata da un profondo fraintendimento. Pietro, infatti, a cui viene associato l’appellativo Satana, opera ciò che letteralmente significa tale nome, ovvero una separazione tra il Cristo e la sua identità vera e completa, riducendolo ad una proiezione delle proprie aspettative.
Sempre c’è la possibilità di una fede diabolica, di una fede che agisce per separazioni, riduzioni o esclusioni: per il discepolo, invece, il riconoscimento del Messia passa attraverso l’assunzione della debolezza, nell’accoglienza di una povertà radicale e in un atto di fede che ha il sapore dell’incerto, accompagnato dalla fioca luce dell’aurora più che dallo splendore del sole di mezzogiorno (cfr. Mc 15,33).
E mentre erano per via (v. 27) – compagnia di uomini che ha fatto della strada la casa dove dimorare e del movimento lo stile della propria fede, riflesso di un Dio che fermo non sta ma si muove verso tutti – mentre attraversavano i villaggi intorno a Cesarea, ecco, d’improvviso, il Maestro pone una domanda.
Il Maestro interroga, consegna loro un interrogativo. Due, in realtà.
Il primo è generico. Quasi un sondaggio: la domanda è di Gesù, le risposte sono della gente. I discepoli, qui, sono solo latori di comprensioni altrui: riportano ipotesi di cui Marco aveva già dato notizia (cfr. 6,14-16) – Egli è Giovanni Battista, ma anche Elia ed infine, un qualunque profeta.
Ma non è sufficiente. I sondaggi lasciano spesso il tempo che trovano e, soprattutto, non scaldano il cuore né ti mettono in movimento.
Al Maestro interessa altro. Vuole ascoltare la vita dei suoi, di quelli vicini: E voi chi dite che io sia? (v. 29)
L’interrogativo si fa personale, stringente, quasi non lascia respiro. Non puoi non rispondere!
Quel voi pesa come un macigno: voi che siete con me, che con me mangiate, bevete, camminate; voi che ascoltate, voi che siete i quotidiani, quelli dell’ogni giorno, quelli di tutti i giorni, di sempre, quelli di dentro…proprio voi, rispondete!
È necessario, nella vita, ricevere domande. Beati coloro che sanno accoglierle!
Domandare può farti scrollare di dosso il torpore del consueto, di ciò che è diventato scontato. L’abitudine spegne il desiderio; l’ovvietà ammanta di polvere la meraviglia; la sequela può trasformarsi nel cinismo di chi non sa più stupirsi; il credente rischia di trovar un illusorio comodo rifugio in una vita che scorre sempre uguale a stessa. Dio stesso può diventare il soprammobile del nostro salotto interiore: bello a vedersi ma afono.
Egli stesso si fa domanda, posta nel cuore dei discepoli e, per loro tramite, nel cuore di ciascuno di noi.
La domanda sull’identità di Gesù attraversa tutto il racconto del Vangelo di Marco: per ogni credente, Gesù è la domanda, più che la risposta. Ogni uomo e ogni donna che interroga la vita per coglierne il senso, il significato profondo, che interroga i grandi e i piccoli perché della vita, sta facendo risuonare nella sua coscienza lo stesso interrogativo posto a Cesarea di Filippo. Proprio lì, lontano dalla città santa, forse troppo offuscata di risposte per cogliere la dirompente novità del Dio di Gesù Cristo, lontano da una ripetitività asfittica e assordante, solo lì, in quel luogo – che non è neppure un luogo ma è ogni attimo della tua vita – proprio lì il Maestro imbandisce la tavola per incontrarti.
Egli non è dove lo facciamo stare noi: è a Cesarea, nei luoghi sconosciuti, è all’opposto, non al termine delle nostre equazioni esistenziali; non abita dove riteniamo che sia più logico. Egli dimora nelle domande, non nelle risposte.
Egli è altrove, per strada, è sempre un po’ più in là.
Egli è la domanda posta a quel gran ingarbugliamento che è la nostra vita.
A domanda complessa, risposta complessa. Ciò che Pietro intende con il titolo Cristo non viene subito esplicitato dall’evangelista ma si intuisce – ex post – dalla reazione dell’apostolo (v. 32) all’annuncio della passione (v.31). Nel cuore e nella testa di Pietro, confessare la messianicità di Gesù significava ammantare tale identità di risvolti politici e militari; nella sua risposta, Pietro custodiva il desiderio -così umano e così impulsivo – di un riscatto, di un risarcimento, quasi personale: i Romani ci hanno schiacciato i piedi ed ora tocca a noi ricambiare con la stessa moneta!
Per Lui, dire Cristo significava dire la forza che schiaccia le ingiustizie, che ristabilisce la bilancia dei soprusi: Pietro confessava la forza di chi vuol vendicarsi dei suoi nemici!
Gesù accoglie le sue parole nel silenzio e con l’imposizione del silenzio: ciò che Pietro aveva detto era certamente vero ma insufficiente, incompleto, parziale. Le sue parole erano luce ma una luce ancora rigata e circondata dall’oscurità. Lo sviluppo del testo ce lo fa capire chiaramente: per Pietro è insostenibile accettare un Messia che non trionfasse e che addirittura potesse subire l’onta ignominiosa della croce.
Tocca a Gesù stesso completare il quadro: non c’è nessuna messianicità che non passi dalla morte. E qui le sue parole che, spesso nel Vangelo di Marco erano state custodite dal linguaggio parabolico, sono consegnate con parresia, con il loro carico di dura realtà (v. 32).
È un insegnamento denso di rivelazione: pagine e pagine sono state scritte sulla necessità della morte di Gesù espressa dal famoso δεῖ – era necessario che. Tale necessità indica che la croce è il luogo in cui Dio sceglie di rivelarsi. È la rivelazione di un nuovo volto di Dio: non colui che con la sua forza impone se stesso ma colui che, accompagnato dalla debole forza dell’amore, percorre la via della mitezza e della resa per manifestare un amore grande.
Questo è il cuore della rivelazione contenuta nel testo odierno: il Padre di Gesù sceglie la via della mitezza, della forza debole. Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi, dirà Gesù nel Vangelo di Luca (10,3) che è come dire: sarete in mezzo ai lupi ma non diventate lupi a vostra volta!
È una forza debole quella del Messia, che ti fa stare impari nella lotta.
È la forza debole della mitezza che diventa attesa, delicatezza, rispetto, accoglienza per le sorelle e i fratelli che incontro ogni giorno.
C’è una messianicità – teologica ed ecclesiale – che può essere urlata, imposta, sontuosa, appariscente. E poi c’è la messianicità evangelica, quella di Gesù.
C’è una messianicità – teologica ed ecclesiale – che volendo imporsi imbocca la strada dello spirito di condanna, si arrocca su posizioni difensive, respirando lo spirito di crociata.
Nella sequela cristiana, è abbassandosi che si sale; è scendendo che ci si solleva; è lasciando tutto che tutto si ritrova; è abbracciando la povertà che si diventa ricchi. Dietro al Maestro di Nazaret, vige la legge del capovolgimento della realtà: l’uomo in piedi è colui che umilmente si piega sul fratello – inclinatione sua erigitur scriveva secoli fa Gregorio Magno (cfr. (Mor. 7,18).
La messianicità evangelica ci ricorda che l’esercizio della condanna non trova spazio nel Vangelo. Che è sempre una proposta, chiama al dialogo; non una bandiera da innalzare sui nostri tentativi di conquista.
Proprio come si conclude il brano di oggi: Se vuoi… (v. 34). Per l’appunto, una proposta.
Debole e forte insieme.
Come il Messia: vivo perché morto.
Forte perché debole.
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