XXIV domenica del tempo ordinario
Liturgicamente questa non è la domenica della misericordia (l’ex domenica “in albis”) ma le letture puntano decisamente in questa direzione, e parlare di misericordia è un vero mare magnum, per cui direi di fissare solo alcuni punti per lettura e poi lasciare che la Parola di Dio ci scavi dentro.
Prima di tutto la misericordia è: biblicamente è la cura, la protezione che l’alleato più potente rivolgeva in favore di quello più debole, ad esempio un re verso un re minore, il re verso i sudditi, e così via. Cosa la misericordia non è: la misericordia non è complicità o omertà, ovviamente, né verso gli altri e tantomeno verso noi stessi, perché spesso il nostro modo di comprenderla si espone a questi rischi. Direi che la misericordia è l’esperienza di guarigione, una piccola resurrezione, che avviene ogni volta che, scoprendo le nostre mancanze (peccati), non veniamo trattati secondo la giustizia che ci spetterebbe ma con misericordia, cioè amore e accoglienza. La distanza tra ciò che ci spetterebbe e ciò che riceviamo è lo spazio del dono, dell’amore gratuito che ci fa risorgere dal pozzo in cui ci siamo buttati verso l’abbraccio di chi ci ama realmente. In più la misericordia è un’esperienza circolare: dal momento che mi sento amato nei miei fallimenti, sarò più capace di guardare nella verità il mio peccato e, a cascata, saprò accogliere ancora meglio la misericordia, e così via in un circolo virtuoso. Senza la consapevolezza del mio peccato non si fa vera esperienza di misericordia, se vogliamo questo è il peccato d’orgoglio.
Nella prima lettura Dio “prova” Mosè: questo popolo è infedele, non mi merita, prendo te e lascio loro, che ne dici? Davanti al peccato del vitello d’oro è difficile dire il contrario: il tradimento più manifesto nel momento dell’alleanza, è difficile fare di peggio. Ma penso che il Signore sta mettendo alla prova Mosè: ti scandalizzi della pochezza degli altri (e quindi della tua) o riesci ad andare oltre? Sai amare come amo io, sai vedere come vedo io? Qui Mosè ragiona da padre: non cedere Signore alla rabbia, benché giusta, e guarda il tuo popolo ancora con amore: della tua opera, dei patriarchi tuoi amici e della tua promessa che è capace di fare nuove tutte le cose
La seconda lettura racconta l’effetto di una misericordia accolta col cuore e non con la testa: chi parla “troppo” dei propri peccati non è detto che li abbia riconosciuti nella loro verità, sembra quasi un esorcizzarli. Qui Paolo parla a partire dalla propria esperienza, così grande e ingombrante che non era possibile nascondere, e capisce se stesso solo come il luogo dove ognuno può misurare la misericordia di Dio che, non solo lo ha perdonato, ma ha fatto nuovo Paolo, lo ha fatto diventare così come lo aveva sognato quando lo aveva chiamato all’esistenza. Per questo la parola della misericordia è certa: perché l’ha sperimentata. Ovviamente non bisogna fare peccati grandi per fare questa esperienza: quello che bisogna è lasciare che lo Spirito ci guidi alla verità tutta intera, che il nostro orgoglio che manipola la realtà faccia spazio alla verità che rende liberi. Allora sì che possiamo annunciare le opere grandi di Dio che guarda i piccoli e gli umili.
Nel vangelo ci sono 3 parabole: ognuna è più che sufficiente… Ci basti pensare che nelle prime 2 (pecora smarrita e dracma perduta) l’accento è sulla ricerca appassionata e instancabile da parte del padrone o della donna che porta alla gioia condivisa: è il paradigma per capire come ragiona il Signore.
La parabola del figlio prodigo, o del padre misericordioso, pone tutta una serie di domande: insegna cosa è il peccato, il meccanismo sano che ci riporta al Signore, come ci accoglie il Padre, ma anche come tutto questo può andar male, come ci si può sentire schiavi invece che figli, ma andiamo con ordine.
La parabola è per quelli che si sentono giusti ma che “rosicano” sul fatto che Gesù accoglie con altrettanto amore anche i peccatori matricolati, questa è la suggestione che più scombussola.
Il figlio più giovane manifesta la dinamica del peccato: se rimango in questa casa perdo la vita, perché la vita io so cos’è: soddisfare ogni mia pretesa; ovviamente in questo schema Dio è il mio avversario perché sarebbe geloso della mia felicità e non vuole che io sia felice (si dice che tutto quello che piace o fa male o è peccato…). Allora il figlio scappa, dilapida una ricchezza (la grazia di Dio e la sua stessa vita), arriva all’umiliazione che ai maiali danno le carrube e a lui nemmeno queste. È la fame, il malessere e qui ognuno di noi potrebbe aggiungere una sfumatura diversa, che lo aiuta ad aprire gli occhi, anche se non completamente: mio Padre con gli operai è giusto, lui sì che gli dà il pane, altro che carrube… Il ritorno dopo essersi preparato una difesa e il viaggio, più o meno lungo.
Il Padre lo “vede da lontano” che significa che lo sta aspettando e che non gli fa fare tutta la strada, quello che ha nel cuore un genitore può capirlo, fino in fondo chi è solo figlio no, perché gli manca ancora una parte. Un genitore vuole bene al figlio più di quanto ne voglia a se stesso, è disposto a qualsiasi rinuncia (o almeno dovrebbe funzionare così, solo con questo amore un figlio può crescere nella fiducia e aprirsi al mondo…); Gesù prende questa immagine per spiegare il Padre. Non lascia finire il figlio perché gli evita di pronunciare la frase che può riprenderlo come operaio: non lo sei e non lo sarai mai.
I gesti raccontano questo: i sandali sono l’indumento degli uomini liberi, il vestito parla di dignità e l’anello significa che può ancora disporre dei beni di casa (proprio quei beni che aveva dilapidato ora gli vengono riconsegnati) e la festa è la gioia, simbolo di quello che il Padre ha preparato per noi.
Il figlio più grande siamo noi. Difficile forse sgradevole, ma alzi la mano chi non ha sentito un vario fastidio pensando al più grande e al piccolo che viene così coccolato. Se avessimo fatto pace con la nostra debolezza potremmo sentire che la parabola annuncia il ritorno a casa proprio per noi; ma se ci fa “rosicare” significa che ha colto nel segno. Come sta il figlio maggiore? Male. Non si sente figlio, non si sente fratello, si sente povero in una casa che è ricca, c’è una festa e lui sta fuori arrabbiato e indignato. Anche per lui il Padre uscirà e gli andrà incontro, ma entrerà? Beh, questo lo decidi tu, perché tu sei il fratello maggiore che deve ancora scoprire che è uguale all’altro, perché il punto non sta nel comportarsi più o meno bene (poi ognuno si fa gli sconti da solo…) ma godere dell’amore del Padre e sentirsi cercati, accolti e a casa; se mi sento così amato sento compassione per i lontani e gioisco nel vedere che tornano a casa.
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