XXV domenica del tempo ordinario
Alcuni testi evangelici, nella loro schiettezza e radicalità, sono facili da comprendere. Non così per la pagina che la Chiesa ci consegna in questa domenica. Abbiamo una parabola (vv. 1-8) unita ad alcuni detti di Gesù posti come commento redazionale (vv. 9-13) che rappresentano un testo difficile, poco lineare, di non immediata comprensione: ad un ascolto veloce sembra di assistere ad un elogio della disonestà. Può pervaderci un senso di imbarazzo per le parole del padrone (v.8a) che osannano e lodano l’agire dell’amministratore disonesto scaturito alla minaccia del licenziamento in cui era incappato a motivo della – presunta – incapacità gestionale (v.1).
Ma ad una lettura attenta e meno immediata, ci rendiamo conto che la lode non è pronunciata per la disonestà e l’immoralità delle sue azioni quanto per la scaltrezza e la furbizia con cui egli ha agito (v.8b): dinanzi al precipitare degli eventi, quest’uomo non si perde d’animo e cerca di costruirsi un futuro. Non aspetta che gli eventi precipitino, restando con le mani in mano ma fa leva su astuzia e creatività, reagendo per come ne è capace, avviando prospettive nuove.
Ne avevamo scrutato i pensieri e le preoccupazioni (v.3) e lì, proprio al centro della coscienza dove tutti maturiamo le decisioni più importanti della vita, proprio lì, lui si ingegna perché, una volta estromesso dal lavoro, possa trovare accoglienza, una casa dove dimorare (v.4). Non sappiamo con certezza se l’operazione di riduzione di debiti non suoi (vv. 5-7) fosse veramente illegittima: per molti esegeti, infatti, egli non ha truffato il suo padrone, perché, riducendo il debito, ha rinunciato solo alla sua personale parte di profitto; era infatti abituale che gli amministratori guadagnassero per sé stessi imponendo una tassa sulle transazioni effettuate per conto del proprietario. Ma questo gli ha permesso di guardare con occhi diversi i tanti debitori con, ordinariamente e in maniera anonima, aveva avuto a che fare fino a quel momento.
Qui sta la scaltrezza lodata: egli inverte il ruolo del denaro che da strumento di accumulo personale, autocentrato e solitario diventa occasione per creare e costruire relazioni nuove, basate su un tesoro di riconoscenza e di amicizia presso coloro con i quali intratteneva fino ad allora relazioni esclusivamente commerciali. Ciò che salva, infatti, che dà senso alla vita, ciò che è il perno della parabola odierna e che è il motivo reale della lode del padrone è la trasformazione – la trasfigurazione – della chiusura in apertura, del guadagno in dono, della solitudine in comunione.
L’amministratore infedele (titolo redazionale posto nella versione della Bibbia di Gerusalemme e che non aiuta ad una comprensione genuina del testo!) trova uno spazio che gli consente di uscire dalla situazione difficile in cui era incappato attraverso una scoperta decisiva: gli altri.
Era ricco ma solo. Ora povero, scopre la comunione.
Il denaro e, più in generale, ogni bene a cui diamo un valore simbolico sproporzionato, offre l’illusione della sicurezza. Esso genera l’illusione di essere onnipotenti: è la vera alternativa atea della vita. Sussurra l’inganno della necessità. Più abbiamo, più crediamo di avere, più aumenta la paura di una possibile mancanza e più pretendiamo di essere saldi, cerchiamo di stare al sicuro, aumentando all’infinito le tante forme di possesso che affollano le nostre vite. Senza renderci conto che questo meccanismo ci allontana dagli altri. Ci rende delle isole. Appunto, illusoriamente ricchi, realmente soli.
La scelta è tra Dio e mammona (v.13), parola antica che richiama nel suo etimo l’atto di fede, la fiducia, il fondamento. Come se il Vangelo ti stesse chiedendo: ma dove poggi la tua vita, qual è il sostegno dei tuoi giorni, in chi riponi veramente fiducia?
E non pensare che sia solo un discorso economico: tutto può diventare ricchezza. È ricchezza, è mammona ogni forma di attaccamento disordinato ad un avere, qualunque esso sia (ci sono attaccamenti morbosi e irrazionali a idee, abitudini, persone, cose materiali e spirituali), dove si finisce per identificarsi con ciò che si possiede e dove perdere tale avere significa, in profondità, perdere sé stessi. Mammona è il nome di molte cose della nostra vita! Più o meno, tutte quelle a cui non sappiamo dir di no!
Per i figli di mammona, possedere genera sicurezza. Illudendosi di trovare vita nell’avere, essi perdono la propria identità, sono incapaci di scegliere perché incapaci di rinunciare, non hanno discernimento, smarriscono la libertà poiché stanno nella presunzione di essere autosufficienti, di bastare a sé stessi, e di non aver bisogno di nessuno.
La scaltrezza dell’amministratore fraudolento ci ricorda che c’è invece una ricchezza autentica nelle pieghe della nostra povertà, del nostro essere mancanti. Ed è la possibilità della libertà!
Perché è proprio quando non hai più niente, quando sei messo all’angolo, quando la tua precarietà emerge e tutti i tuoi possedimenti si sgretolano tra le mani e sotto il cielo della tua esistenza, proprio allora emerge ciò è veramente essenziale; si illumina ciò che ci rende veramente noi stessi. Quando tutti i nostri appoggi crollano, restiamo noi, la nostra identità, la nostra capacità di ripartire proprio da ciò che siamo. Forse poco, forse nulla ma siamo noi, senza scudi, senza difese, senza orpelli.
Poveri ma liberi. Liberi di cominciare finalmente a vivere.
Non sappiamo se il nostro amministratore disonesto fosse in realtà tale. Il testo parla solo di un’accusa (v.1). Ma non importa. Ciò che conta è che abbia compreso come anche per lui, povero, si aprivano occasioni nuove per ricominciare.
Povero, ma non nella solitudine.
Bisognoso e, per questo, capace di compassione.
Povero tra poveri.
Come tutti i figli della luce.
Come noi.
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