XXVI domenica del tempo ordinario
Sulla scia del tema proposto la scorsa Domenica, ecco un altro esempio di contrapposizione fra la logica divina e quella umana, con le relative conseguenze di pensiero e di impostazione. Nell’esperienza del presente terreno, “i malvagi vincono e i poveri piangono”(Qoelet) e sembra che questo paradosso sia una costante della nostra vita quotidiana, una frustrazione alla quale siamo condannati. Nella logica divina della giustizia, in questa vita e soprattutto quando tutti saremo chiamati a rapporto davanti a Lui, coloro che avevano vinto perderanno per sempre se stessi e… per coloro che avevano prevaricato “sarà pianto e stridore di denti.”(Lc 13, 28). Dio ribalta le situazioni di elevatezza che l’uomo si è costruito davanti a lui per riprendersi la posizione che gli spetta e per rivelare la sua giustizia, che predilige coloro che dalla società vengono calpestati e oppressi, cioè i poveri e gli indifesi. Nella misura in cui il sistema umano dell’oggi li opprime, nella misura in cui sono costretti adesso a subire ingiustizie e persecuzioni, i poveri, gli umili e gli indifesi saranno oggetto di predilezione e di innalzamento; parimenti i reprobi, i persecutori e i millantatori, che in questa vita hanno già ricevuto la loro ricompensa dovranno sottostare a coloro che hanno vessato; Dio giusto giudice si avvarrà anche del verdetto di quanti li avevano oppressi.
Il profeta Amos di cui alla prima lettura condanna lo sfarzo e la sfrontatezza dei consumi, l’eccessiva ricercatezza e la vanità dei letti d’avorio (6, 2), divani damascati, residenze e sale lussuose (cap. 3), soprattutto quando queste siano scaturite da guadagni e traffici illeciti. Il profeta condanna gli abusi e le ingiustizie sociali ai danni dei più deboli e le discriminazioni in fatto di ricchezza e di povertà economica che colpiscono specialmente le classi meno abbienti. I successi commerciali dei potenti a discapito delle classi medio basse; la ricchezza smodata di capitalisti a danno dei proletari sottopagati e spesso privati anche del loro salario, il divario fra il nord e il sud del mondo nel quale le grandi potenze nazionali si arricchiscono sulla pelle di interi popoli smunti ed emaciati dalla fame; in linea generale le ingiustizie dei ricchi ai danni dei più poveri sono fenomeni che rappresentano una piaga anche ai nostri giorni. E ribadiscono anche l’attualità della parabola lucana del “ricco epulone”. Il misero indigente costretto a mendicare gli avanzi del raffinato benestante mentre i cani leccano le sue piaghe è reietto e snobbato, nessuno si prende cura di lui, tantomeno lo stesso ricco signore che senza sacrificio alcuno potrebbe alleviare il suo dolore e la sua angoscia. Quando arriva il momento della resa dei conti però la situazione si ribalta: il ricco epulone ora soffre i meritati tormenti della pena divina, guardando il povero che, dall’altra parte gode dei benefici della gloria raggiunta dopo tante sofferenze e vessazioni. La rappresentazione dell’aldilà nel mondo ebraico si avvaleva dell’immagine di due grossi mondi distinti, quello delle anime dei giusti gaudenti e l’altro delle anime dannate e in preda ai continui tormenti. Fra i due mondi era immaginato un grande abisso che li rendeva inavvicinabili l’un l’altro, tuttavia in modo che le anime dei condannati potessero vedere quelle dei beati e viceversa, come attraverso un’invetriata. E così il povero epulone oltre che soccombere al dolore opprimente che la dannazione gli procurava, era costretto all’ulteriore tormento di dover assistere alla gioia e alla pace di quel pover’uomo che a suo tempo aveva tanto umiliato. La tortura era per lui doppia.
Quando implora Abramo di mandare Lazzaro dai suoi cinque fratelli ancora in vita ad avvertirli perché non finiscano anch’essi nella Geenna, la risposta che riceve è davvero esaustiva e convincente, anche nella nostra epoca in cui la fede si confonde con la superstizione o si mercanteggia nel credere: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro… “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non crederebbero neppure se uno risuscitasse dai morti.” Un miracolo, un’apparizione, un evento straordinario può anche essere di supporto alla fede, ma questa non è mai subordinata agli eventi miracolosi. In altre parole, non è detto (forse non è neanche vero) che si possa credere e accogliere in conseguenza di un miracolo o di un fatto straordinario; la fede deriva dall’annuncio (Paolo) e dalla conversione, cioè dall’umiltà con cui si ascolta e si assimila la Parola di Dio veicolata dai procedimenti ordinari. Se non si crede nella Parola e nel Verbo Incarnato che ne è il compimento, se non ci si radica nel loro mistero e se non lo si assimila fino a farne un criterio di vita, neppure un miracolo o una visione o un’apparizione cambierà in meglio la nostra vita. E del resto di questo abbiamo evidenza nelle innumerevoli ostinazioni di scribi e farisei a non voler accettare Gesù Messia nonostante l’evidenza di tanti miracoli e prodigi che lo accreditano come tale.
Gesù però invita a coltivare la speranza che determinate situazioni di ingiustizia e di prevaricazione dovranno avere pur fine. Il giudizio di Dio esalterà quanti sono stati costretti a subire le altrui prepotenze e malvagità, ma anche nel percorso stesso della vita presente avverrà che l’arma con cui gli ingiusti avranno colpito i più deboli diventerà lo strumento della loro autocondanna. La concupiscenza del guadagno e l’esasperata voglia di potere e di predominio rappresentano già esse stesse la ragione della tristezza fondamentale di chi ne è schiavo, perché illudono di sicurezze in realtà inesistenti e allontanano dalla vera realizzazione. La ricchezza sproporzionata è essa stessa una condanna, un’anticamera dell’inferno perché non può che arrecare infelicità e illusione di vivere. La logica di Dio comunque è davvero distante dai pensieri dell’uomo e in questo caso promette un capovolgimento a vantaggio dei più reietti e deprezzati. Dio “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili”(Lc 1, 52) concedendo a questi ultimi quella giustizia che non è di questo mondo e ai primi la condanna presente che è pegno di quella futura.
Nella continua lotta contro le ingiustizia e le cattiverie, occorre non lasciarci avvincere dalla tentazione di gettare la spugna arrendendoci alla fatalità e alla disperazione. Bisogna non arrendersi e perseverare con fiducia, senza demordere ma confidando nell’intervento di Dio, che a nostro favore si presenta come amico e alleato. Dare quindi forza alla speranza e non lasciare che questa, accanto alla fede, possa affievolirsi fino a scomparire.
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